sabato 10 dicembre 2016

La Congiura dei Baroni del 1485-1487. La morte dei Petrucci, signori di Carinola

Miniatura: Ferdinando I equestre


La bella iniziativa culturale che si terrà a Carinola domani, 11 Dicembre 2016,  sul processo che determinò la condanna e la morte di Francesco Petrucci, conte di Carinola, e dei suoi familiari, dopo la congiura dei baroni, mi ha spinto ad anticipare un po' la marcia sulla mia tabella, ma è solo una piccola deviazione per permettere ai lettori di capire cosa si cela dietro ciò che vedranno domani. Chiaramente l'argomento sarà ripreso a suo tempo ed ampliato. 
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La storia è nota: durante la seconda Congiura dei Baroni del 1485-1487, la più cruenta, contro il re Ferrante d’Aragona, i Petrucci, signori di Carinola, furono accusati di alto tradimento verso la Corona e giustiziati senza pietà. Quello che è meno noto sono le motivazioni che si celano dietro questo episodio così spietato, che ancora oggi lascia il lettore con molti dubbi.
Dopo questa seconda congiura, Ferrante è stato classificato da molti storici dei secoli successivi come un sovrano crudele e spietato perchè la storiografia dei secoli successivi si basò, più che altro, sul libro di Camillo Porzio. Ma quello del Porzio non è l’unico testo da cui attingere le informazioni sulla vicenda; esistono altri documenti di prima mano da cui attingere informazioni e che possono aiutare gli studiosi a ricostruire con molta precisione l’avvenimento e le condizioni in cui esso nacque, crebbe e si sviluppò. Sono le fonti diplomatiche, ossia le relazioni che gli ambasciatori di altri stati italiani presso il Regno di Napoli inviavano ai loro signori, informandoli passo per passo di tutto ciò che accadeva nel Regno, con date e ricchezze di particolari.  

Gli ambasciatori residenti a Napoli erano tre: Giovanni Lanfredini, ambasciatore fiorentino che relazionava a Lorenzo il Magnifico e ai Dieci di Balia, poi sostituito da Bernardo Rucellai; Battista Bendedei, ambasciatore ferrarese che relazionava a Borso d’Este; Branda Castiglioni, ambasciatore milanese che relazionava a Ludovico Sforza.

Che Ferrante non amasse i baroni regnicoli era risaputo. Erano diventati troppo potenti, qualcuno più dello stesso re, ed ostacolavano qualsiasi tentativo di riforma per l’ammodernamento del regno in favore delle nuove classi imprenditoriali: mercanti, banchieri, artigiani che avrebbero portato nuova linfa, sia sociale che economica, in un regno troppo stanco e provato. Il Regno di Napoli ne aveva molto bisogno perché dal 1478 al 1484 aveva affrontato ben quattro conflitti che avevano prosciugato tutte le risorse regie e quelle dei cittadini: il conflitto contro Firenze (1478-1480) quello contro i Turchi per la liberazione di Otranto (1480-81), quello contro la Serenissima che aveva attaccato Ferrara ed il cui duca era genero di Ferrante (1482-1484) ed infine quello di nuovo contro Venezia che aveva invaso la costa pugliese ed attaccato Gallipoli.

Le riforme fiscali si rivelavano necessarie ma si rivelava necessario anche un netto ridimensionamento delle proprietà feudali a favore della Corona, rendendole demaniali. Erano finiti i tempi delle elargizioni di feudi e terreni a questo e a quello, ora bisogna riportare tutto sotto l’egida della Corona.   Ferrante era ben determinato a portare avanti questo progetto e più di lui lo era suo figlio Alfonso, Duca di Calabria, che aveva un odio sviscerato per i baroni, da cui si sentiva defraudato di potere, di beni e feudi. 
Dal 1484 iniziarono le prime confische. I primi ad essere colpiti furono i condottieri d’altri stati che avevano possedimenti nel Regno e che non avevano servito il sovrano nei modi richiesti. 

Nel 1485 molto scalpore fece l’arresto dei figli e della sorella del defunto Orso Orsini, duca di Ascoli, a cui seguì la confisca dei beni. L’accusa era quella che in realtà i figli dell’Orsini non erano suoi figli e non avevano diritto all’eredità. Poi fu la volta del conte di Montorio, più volte convocato da Alfonso a presentarsi e mai presentatosi. 

Questi provvedimenti reali allarmarono grandemente i baroni che, nel timore di perdere i loro stati, corsero ai ripari. I maggiori baroni del Regno maturarono l’idea di deporre Ferrante e impedire la successione al trono del figlio primogenito Alfonso, ritenuto più pericoloso del padre. I ribelli si assicurarono la collaborazione dei più influenti personaggi di corte: Antonello Petrucci, segretario regio, e i suoi due figli Francesco, conte di Carinola, e Giovanni Antonio, conte di Policastro; Francesco Coppola, conte di Sarno e banchiere, maggior finanziatore della Corona; Giovanni Pou, uomo di fiducia di Ferrante, e, in misura minore, Aniello Ariamone consigliere e ambasciatore regio.

Furono proprio Antonello Petrucci e Francesco Coppola le anime della congiura e durante i processi emerse come i due alimentassero le paure dei baroni e li sobillassero contro Ferrante. Ma la congiura non si rivelò subito tale; all'inizio ebbe piuttosto carattere di cospirazione, con incontri notturni in luoghi diversi, perché i congiurati non ebbero subito chiaro la strategia da seguire per liberarsi di Ferrante. Solo più tardi e dopo diversi incontri si intravidero le vie da percorrere. Le vie da seguire erano diverse: appellarsi al papa chiedendogli la difesa della loro sicurezza o alla Serenissima; far scendere in Italia Renato d’Angiò quale pretendente al trono oppure conservare la dinastia aragonese, offrendo  però la corona al secondogenito di Ferrante, Federico d’Aragona

Ferrante sottovalutò le voci di una cospirazione nei suoi confronti finché non si rese conto che i baroni avevano trovato appoggi esterni al Regno, in primis presso Papa Innocenzo VIII, i quali potevano creargli non pochi problemi. Cercò un accordo con i baroni, dialogando con loro e giungendo persino a spostare la sua corte a Foggia, quando i baroni decisero di incontrarsi a Miglionico, terra del principe di Bisignano, per stare loro più vicino e per tenerli sotto controllo. In queste prove di dialogo gli emissari regi erano proprio i più tenaci congiurati ossia Antonello Petrucci, Giovanni Pou e Francesco Coppola, i quali furono costretti dalle circostanze ad un pericoloso doppio gioco. Il Petrucci, i suoi figli e il Coppola si incontravano frequentemente con i congiurati anche a casa del Petrucci stesso a Napoli, in una "camera terragna". 

Per ben tre volte, gli ambasciatori scrissero ai loro governi che l’accordo tra Ferrante e i baroni era stato raggiunto, ma per tre volte dovettero smentire. Nessun accordo fu raggiunto.

La ribellione fu resa palese quando molti baroni innalzarono la bandiera della chiesa nei loro feudi e il 24 ottobre 1485 il papa pubblicò una bolla con i nomi dei signori che si erano appellati a lui per essere difesi dalle ambizioni egemoniche del re. Allo stesso tempo, truppe pontificie si stanziarono ai confini del regno e altre erano già al suo interno.

La strategia che Ferrante adottò nei confronti dei baroni fu quella di “romperli o contaminarne qualcuno”, come scrisse il Lanfredini ai Dieci di Balia, e perciò quando ricevette per ben due volte l’invito del conte di Carinola e del gran Siniscalco a recarsi a Sarno per un incontro chiarificatore, il re accettò. Ma preferì non andare oltre Nola, come probabilmente gli era stato suggerito da un informatore segreto, e questo gli permise di sfuggire a un doppio tentativo di agguato alla sua persona. I ribelli avevano intenzione di far giungere il re a Sarno e poi catturarlo “come lo bracco alla quaglia”. 

Non è chiaro chi fosse stato l’ideatore di questo piano; dalla deposizione dei figli del Petrucci si rileva che il loro padre non ne sapesse nulla, ma che una volta appresa la notizia, tacitamente l’approvasse. Paolo Ferillo, fiduciario del principe di Bisignano, attribuisce invece l’idea della cattura proprio ad Antonello Petrucci e a Francesco Coppola. Da altre testimonianze al processo, emerge che i baroni avevano animo di catturare anche Alfonso il 29 maggio 1485, durante il battesimo del figlio di Roberto Sanseverino, principe di Salerno, ma Alfonso vi sfuggì perché al suo posto presenziò il fratello Giovanni, cardinale. I baroni riuscirono invece a prendere l’altro figlio di Ferrante, Federico d’Aragona, il 19 novembre di quello stesso anno, sempre a Salerno, quando, durante una celebrazione, i baroni alzarono gli stendardi della Chiesa. Federico fu catturato insieme ad Antonello Petrucci e al Pou (!) e tenuto prigioniero. Riuscì a fuggire da Salerno solo qualche settimana più tardi, aiutato, pare, da un connestabile della città.

L’episodio della cattura del figlio Federico fece rompere ogni indugio a Ferrante, che aveva sempre resistito alle incitazioni del figlio Alfonso di colpire i baroni, ed iniziò la sua guerra aperta contro di loro. Ferrante affidò le proprie squadre al comando dei figli Alfonso, Federico e Francesco e al nipote Ferdinando Vincenzo e più tardi poté contare anche sugli aiuti che giunsero da Firenze, Milano e dai parenti di Spagna e Ungheria.

A questo punto il lavoro diplomatico si intensificò e si cominciò a parlare di pace tra le due parti, ma i punti critici non furono superati, ossia la sicurezza dei baroni e il pagamento del censo annuo che Ferrante avrebbe dovuto pagare alla Chiesa. Ferrante non volle pagare il censo e i crimini commessi dai baroni verso la sua persona non potevano garantire la loro sicurezza.

I baroni, per meglio rafforzare le loro alleanze contro Ferrante, ricorsero a uno strumento molto in voga a quei tempi: l’alleanza matrimoniale. Furono fatti decine di matrimoni tra le famiglie più potenti per vincolarsi tra loro e insieme combattere il re. Ma Ferrante non stette a guardare. Anche lui organizzò un matrimonio.

Il 13 agosto 1486 si doveva celebrare il matrimonio di Maria Piccolomini, nipote di Ferrante, con Marco Coppola, figlio di Francesco, per porre così fine alla dura lotta tra il sovrano e i baroni. O almeno così pensavano i più. Ma non conoscevano l'animo vendicativo e determinato di Ferrante. 
Gran parte della feudalità del regno era radunata nella sala grande di Castelnuovo per assistere a questo matrimonio, ma invece della sposa Ferrante fece entrare le sue guardie. Erano presenti anche i tre ambasciatori che ebbero due notizie di prima mano: la prima fu che da tre giorni era stata firmata la pace con il papa per mano di Giovanni Pontano e Gian Giacomo Trivulzio, emissari del re; la seconda era l’arresto, in atto, di alcuni cospiratori presenti. Ferrante stesso diede i loro nomi: Antonello Petrucci e sua moglie Elisabetta Vassallo, il figlio Giovanni Antonio Petrucci, Francesco Coppola conte di Sarno con rispettivi figli, fratelli e donne. 
Francesco Petrucci non era presente e si trovava nei suoi possedimenti di Carinola, dove fu raggiunto, arrestato senza resistenza e portato a Napoli.

Accusati tutti di lesa maestà e crimini contro la persona del re, i Petrucci furono spogliati dei loro beni e titoli. Il processo nei loro confronti iniziò quasi subito, il 20 agosto. Al termine dell’istruttoria, il notaio Giovanni del Galluzzo, procuratore fiscale, lesse le loro rispettive confessioni e diede a ciascuno dieci giorni di tempo per organizzare la difesa, ma le prove raccolte e accumulate a loro carico erano talmente tante che una qualsiasi difesa sembrava molto difficile.
Il verdetto fu chiaro: doveva “essere levata ad ogne uno de lloro la testa, che in ogne modo, la loro anima sia separata dal corpo”.

I primi ad essere giustiziati furono i figli del Petrucci. Giovanni Antonio fu decapitato, mentre Francesco, “lo pegio de tutti”, fu sgozzato e poi squartato.   Francesco era stato coadiutore del padre nella cancelleria regia e questo incarico gli dava accesso a documenti e informazioni  che egli metteva a disposizione dei congiurati e che fecero di lui l’elemento forse più importante della congiura. Accusarlo di alto tradimento fu l'amara conseguenza.   
In realtà tra i due non correva da tempo buon sangue e le cause della loro animosità vanno ricercate nel freno che Ferrante metteva alle richieste Francesco che voleva ingrandire la sua posizione economica e sociale. In particolare, Francesco aveva anche il dente avvelenato con Ferrante perché il re non gli aveva dato il permesso di deviare un corso d'acqua a Carinola per le sue necessità, adducendo come motivazione che questo avrebbe compromesso la caccia. A Ferrante, dal canto suo, dava molto fastidio l'intraprendenza del giovane conte carinolese che, per dispetto o per spregio, voleva aprire a Carinola una cavallerizza, mettendosi in concorrenza con quella del re già presente sul territorio carinolese. 

La descrizione della sua esecuzione ce la fornisce il Bendedei, ambasciatore ferrarese, che lo scrisse al suo signore in un dispaccio dello stesso giorno. La descrizione del Bendedei è riportata da Elisabetta Scarton nel suo studio. 

"Dopo quattro mesi di carcere, il trentenne conte di Carinola fu condotto sul luogo dell’esecuzione. Disteso su una carretta trascinata da una coppia di buoi, attraversò tutti i Sedili di Napoli per approdare alla piazza del mercato. Qui, inginocchiato su un palco, dopo essersi confessato ed essersi doluto della sua sorte con gli astanti, il ministro della giustizia gli tagliò la gola. Per enfatizzare ulteriormente la colpa, il suo corpo fu squartato e posto fuori città, nei crocevia delle quattro arterie principali. Il fratello Giovanni Antonio, conte di Policastro, raggiunse a piedi la piazza e attese l’esecuzione senza mai proferire parola". 
Antonello Petrucci e Francesco Coppola continuarono a languire nelle carceri di Castelnuovo, fino alla decapitazione pubblica che avvenne l’11 maggio del 1487.
 cdl


Testi Consultati
Jerry H. Bentley : Politica e Cultura nella Napoli Rinascimentale - Napoli, 1995
Caminllo Porzio: La congiura de’ baroni del regno di Napoli – Napoli, 1821

Elisabetta Scarton: Poteri, relazioni, guerra nel regno di Ferrante d’Aragona – accademia. edu

domenica 20 novembre 2016

Alfonso I d'Aragona. La tattica militare di G. A. Marzano per la causa aragonese

Alfonso I d'Aragona
I napoletani, ormai fedeli agli Angioini, non amarono il cambiamento né i nuovi dominatori aragonesi, ritenendoli responsabili delle loro sfortune, ma dovettero ben presto ricredersi su Alfonso, tanto che si meritò l’appellativo di Magnanimo. Alfonso aveva 27 anni ed era già il quinto re d’Aragona, quando divenne il primo re aragonese di Napoli. Il nuovo re fece il suo ingresso in città il 26 Febbraio 1443 dal Carmine e per permettere il passaggio del corteo reale fu necessario abbattere circa 18 metri di mura. Accanto a lui erano i baroni che avevano sostenuto la sua causa, tra cui Giovan Antonio Marzano, duca di Sessa e conte di Carinola.
Alfonso si rese subito conto che lo aspettava un’impresa ciclopica, ma non si demoralizzò. Le condizioni del Regno erano pessime, sia in campo politico che in campo economico. I baroni non obbedivano più all’autorità centrale da cui si erano sempre più distaccati, acquisendo una propria autonomia. Essi eludevano gli obblighi del vassallaggio, non pagando i dovuti censi  e non mandando i propri soldati al servizio dell’esercito reale, per cui il sovrano doveva ricorrere sempre più a mercenari, con notevole spreco di denaro. Molti baroni erano apertamente  ribelli al re da cui avevano dichiarato l’autonomia. Da un punto di vista economico la situazione non era migliore. Le finanze dello stato erano inesistenti grazie alle continue guerre intraprese dai sovrani durazzeschi e l’intero regno era ridotto in miseria perché le guerre avevano provocato il declino del commercio, il ristagno dell’artigianato e l’abbandono dell’agricoltura. La stessa città di Napoli, capitale del regno, era un cumulo di macerie e la popolazione, nonostante le ripetute pestilenze, aumentava sempre più; la cinta muraria non era sufficiente a contenerla tutta ed andava assolutamente ampliata.
Alfonso spese somme enormi per dare un aspetto più decoroso alla città e al regno, intervenendo sulla maggior parte dei palazzi pubblici e sulle strade. Chi credeva che fosse un rozzo catalano, dovette ben presto ricredersi: Alfonso era un uomo colto ed erudito e fu  un vero mecenate; si circondò di poeti e letterati dando al Regno un’impronta nuova che attirò numerose personalità artistiche e letterarie. Di lui si dice, e non a torto, che fu il sovrano che diede inizio al Rinascimento napoletano. Di lui avremo modo di parlare ancora nei pezzi successivi e conoscere meglio la sua notevole personalità.

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Quando gli Angioini lasciarono il passo agli Aragonesi, i Marzano erano già signori di Sessa dal 1362. Facendo il punto della situazione, ricordiamo che il Ducato di Sessa ebbe inizio con Tommaso Marzano che comprò Sessa dalla regina Giovanna I per 25.000 fiorini.  Inoltre, la regina fregiò Tommaso del titolo di Duca di Sessa,  facendolo  il secondo Duca di sangue non reale, dopo Francesco del Balzo che era stato il primo. 
Goffredo Marzano, fratello di Tommaso, comprò invece Teano e Carinola per 13.000 fiorini e i Marzano, originari di Capua,  si stanziarono nelle nostre zone.

La Tommasino, nel suo interessantissimo studio “Sessa Aurunca nel periodo aragonese”, fa risalire l’inizio del ducato di Sessa al 1360 con Francesco del Balzo che ne era allora proprietario, ma volendo essere pignoli, è opportuno chiarire che Francesco del Balzo era stato insignito del titolo di Duca d’Andria e non di Sessa. Poi, scontrandosi con la regina, Giovanna gli confiscò le terre e le vendette per far fronte alle spese militari, tra cui Sessa e Teano ai due Marzano.

Alla morte di Giacomo Marzano, Ladislao confermò al figlio, il piccolo Giovan Antonio Marzano, il ducato di Sessa, ma non gli restuì tutte le terre, che gli furono poi restituite dalla regina Giovanna II nel 1416.  Al fratello di Giacomo, Goffredo, già conte di Alife, Ladislao restituì le contee di Teano e Carinola. Goffredo ebbe da sua moglie Ceccarella di Gianvilla un’unica figlia, anche lei di nome Maria,  che andò sposa a Rinaldo, figlio naturale di Ladislao e principe di Capua, ma questo matrimonio fu sciolto quando Ladislao si accorse del voltafaccia dei Marzano. Alla morte di costei, tutte le proprietà ereditate dal padre, tra cui Carinola, passarono al giovane cugino Giovannantonio (1423?).
Da questo momento, le sorti della Contea di Carinola sono strettamente legate a quelle del Ducato di Sessa e alla potente famiglia Marzano.

La grandezza e il potere di una famiglia è sempre direttamente proporzionale all’adesione alla causa del sovrano di turno. Questo i baroni lo sapevano bene e  sceglievano oculatamente da che parte stare. Non era certo l’amore per questo o per quel sovrano a determinare le azioni del baronaggio, ma la convenienza che poteva venirne per la famiglia. Le scelte oculate  della famiglia Marzano ne determinarono il grande potere decisionale nell’ambito del Regno: fu infatti l’adesione alla causa angioino-durazzesca prima e alla causa aragonese dopo, a permettere alla famiglia Marzano di ingrandirsi sempre più, fino al tracollo definitivo del 1465 causato dall’ azzardato comportamento di Marino Marzano.

Giovan Antonio Marzano, nella lotta tra la Regina Giovanna II   e Alfonso d’Aragona per la conquista del Regno di Napoli, scelse di stare dalla parte dell’aragonese, abbandonando l’appoggio bisecolare della sua famiglia agli angioini. Il Marzano valutò sicuramente le forze e gli appoggi militari dei due e la grande quantità di denaro da profondere nella causa e che favoriva l’aragonese, già re d’Aragona e di molti altri regni. Nella valutazione del Marzano, la causa durezzesca era ormai persa e per Napoli si apriva una nuova era, quella aragonese.

Per questo motivo Giovanni Antonio, Grande Ammiraglio del Regno, fu da subito dalla parte dell’aragonese, e quando Alfonso gli mandò i cavalieri Caraffello Carrafa e Raimondo Bojl per chiedergli notizie sugli umori degli altri baroni e consigli su come muoversi prima di combattere Giovanna II, Giovan Antonio mandò a dire all’aragonese che molti baroni erano rimasti indignati dal testamento della  Regina Giovanna ed erano pronti ad appoggiarlo, qualora decideva di muoversi. Giovan Antonio stesso aveva un piano per favorire Alfonso.
Dopo intese con altri baroni, Cristoforo Gaetani conte di Fondi, Bernardino e Ruggero Gaetani conti di Traetto, Francesco e Rinaldo D’Aquino conti di Loreto,  il Marzano iniziò il suo piano a favore di Alfonso, ossia l’occupazione di Capua.

Giovan Antonio Marzano riuscì a prendere Capua senza colpo ferire perché, da buon barone, usò l’arma del suo potere combinata a un po’ di corruzione. Castellano di Capua era un suo vassallo, Giovanni Caramanico, il quale promise al duca che lo avrebbe aiutato ad occupare Capua, ma c’era una difficoltà: bisognava passare il fiume Volturno per entrare in Capua. Se il duca e i suoi soldati avessero cercato di passare dall’altra parte del fiume, sarebbero stati subito fermati dalle truppe  angioine che alloggiavano a Santa Maria di Capua e nelle zone circostanti. C’era dunque bisogno di guadagnarsi  il favore di chi stava a guardia delle torri di controllo. Il Caramanico, molto audacemente, chiese a un suo amico di cedere le torri agli uomini del Duca di Sessa,  quando toccava a lui fare la guardia, promettendogli grande ricompensa. L'uomo accettò e i due, insieme, architettarono un astuto piano per far occupare le torri dagli uomini del Marzano. 

Una notte che costui era di guardia, calò una fune dalla torre in cui si trovava e fece salire tre dei più valenti cavalieri del duca, poi chiamando ad una ad una le guardie delle altre torri, le fece salire sopra con una scusa e le imprigionò nella stanza più alta della torre, controllate dai tre cavalieri del duca perché non gridassero. Poi suonando il corno, diede il segnale al Caramanico che le torri erano state occupate. Ma il piano non era ancora completo: ora bisognava neutralizzare il capitano Cittadino (di nome), al servizio del conte di Nola, che con quattrocento cavalieri aveva la responsabilità della guardia della città ed era inoltre capitano di giustizia. Ora, il capitano, essendo venuto in contesa con due importanti capuani in lite tra loro, li aveva mandati entrambi in carcere nelle torri.

La guardia corrotta mandò dunque  a chiamare il capitano facendogli dire che i due capuani volevano infine riappacificarsi e che era bene egli venisse subito. Il capitano andò alle torri e fu fatto salire da solo, escludendo gli altri cavalieri venuti con lui. Appena salito, fu messo in prigione anche lui insieme agli altri. A questo punto il Caramanico mandò a chiamare il Duca di Sessa che con suoi soldati e fuoriusciti capuani entrò in Capua e la occupò. I soldati a guardia di Capua, rimasti senza il loro capitano, uscirono dall’altra porta e raggiunsero il campo angioino.

Presa Capua, il Marzano mandò subito Rinaldo d’Aquino a Messina da re Alfonso, facendogli dire di venire subito perché Capua era presa, ma bisognava mantenerla. Se egli, il Marzano, era stato in grado di prenderla con le sue forze private, non era certo in grado di mantenerla, perché il Caldora e gli altri capitani della regina l’avrebbero sicuramente assediata con un nutrito esercito. Alfonso non se lo fece dire due volte e partì subito da Messina con sette galere, lasciando a suo fratello Pietro l’incombenza di raggiungerlo con il resto dell’esercito. E perché la regina non sapesse della sua venuta, Alfonso non andò a Napoli con le sue navi, ma fece rotta verso Ponza dove si fermò. Mandò il solito Carafello Caraffa dal duca a comunicargli la sua venuta e a dirgli che, poiché era stata presa Capua, gli sembrava opportuno prendere anche Gaeta per avere più opportunità e spazio per le sue forze marittime. Ma il Marzano non fu d’accordo; vedendo gli animi dei capuani, egli dedusse che questi avrebbero aperto le porte al Caldora per non avere problemi e gli Aragonesi avrebbero perso anche Capua senza prendere Gaeta. Poi mandò a dire al re di decidere un luogo in cui i baroni potevano andare ad omaggiarlo.

Alfonso capì perfettamente il punto di vista del Marzano e lo condivise. Allora sbarcò sulla marina di Sessa e si diresse personalmente verso la città per farsi omaggiare, dimorando nel castello di Sessa quale ospite  del  Marzano. La prese di Gaeta era stata però solo rimandata.
cdl

Alcuni testi consultati

Bartolomeo Facio: Fatti d'Alfonso d'Aragona, primo ne di Napoli di questo mome, Venezia, 1580

Gioviano Pontano;  Il Principe eroe- Napoli, 1786

Enrico de Rosa: Alfonso I D’Aragona, l’uomo che ha fatto il Rinascimento a Napoli, 2007

Pietro Giannone: Istoria civile del Regno di Napoli , Milano, 1833

G.A. Summonte, Historia della città e Regno di Napoli, in Napoli 1601-1602.Filippo Maria Pagano: Saggio Istorico sul Regno di Napoli, Napoli 1824

Angelo Di Costanzo:  Historia del regno di Napoli, Nell’Aquila, 1582

Carlo de Lellis Discorsi sulle famiglie nobili del Regno di Napoli, Napoli, 1654

B. Croce, Storia del Regno di Napoli, a cura di G. Galasso, Milano 1992.

Ferrante Della Marra - Discorsi delle famiglie estinte – Napoli, 1641

Attilia Tommasino: Sessa Aurunca nel periodo aragonese – Ferrara, Roma, 1997

Tommaso  De Masi: Memorie Istoriche degli Aurunci, Napoli, 1761

Incerto autore: Istoria del regno di Napolmi in Giovanni Gravier- Raccolta di tutti i più rinomati scrittori dell'istoria generale del Regno ... Napoli, 1769

N.F. Faraglia: Storia della lotta tra Alfonso V d’Aragona e Renato d’Angiò, Lanciano, 1908

Mario del Treppo: Storiografia del Mezzogiorno – Napoli, 2006

Giuseppe Reccho: Notizie di Famiglie Nobili e illustri della città e Regno di Napoli -  Napoli, 1717

giovedì 13 ottobre 2016

Gli ultimi sovrani angioini: Giovanna II



Giovanna II d'Angiò



Giovanna II è conosciuta più per la sua vita licenziosa che per i suoi meriti di sovrana. Di lei si è scritto di tutto e di più: che era una mangiatrice di uomini insaziabile, una ninfomane che mandava a cercare i più bei ragazzi nelle strade per poi ucciderli dopo l’uso, facendoli precipitare da una botola della sua stanza. Non possiamo veramente sapere dove finisce la storia e dove inizia la voce popolare, ma sicuramente di amanti Giovanna  ne ebbe tanti.


Quando Ladislao morì improvvisamente, Giovanna aveva i suoi 41 anni, essendo nata il 1373 (qualche storico dice 1371), ed era già vedeva del duca Guglielmo d’Austria. Ladislao non aveva avuto figli legittimi dalle sue tre mogli  ed allora la corona di Napoli le cadde letteralmente sulla testa, trovandola alquanto impreparata. Era vissuta, sì, all’ombra del fratello a corte, ma senza mai interessarsi di politica; sembra fosse solo interessata a soddisfare, in quell’ambiente vizioso, i suoi appetiti sessuali che le diedero fama di donna lussuriosa e libertina, tramandata fino ai nostri giorni.   


Il Regno di Napoli era un grande regno e faceva gola a molti nemici. In quel mondo di prepotenza maschilista Giovanna non era certo avvantaggiata, anzi ebbe il suo bel da fare a difendersi dagli attacchi che le venivano da ogni parte. Ladislao aveva lasciato in sospeso diverse situazioni che ora andavano risolte: la guerra con i vari Luigi D’Angiò (l’uno moriva e il figlio lo sostituiva), il contrasto con il papa e quello con Sigismondo d’Ungheria, per non parlare dei continui scontri con i baroni del Regno. Non avendo l’abilità politica del fratello né le sue doti di grande condottiero di eserciti, Giovanna si senti fin da subito non all’altezza della situazione e cambiò quindi politica, cercando di fare la pace con tutti. Ma gli altri, consci della sua debolezza politica, non vollero fare la pace con lei e così perse i domini napoletani che Ladislao aveva conquistato nell’Umbria e nello Stato della Chiesa. Inoltre sulla regina avevano troppa influenza le persone sbagliate: amanti, famigli e baroni interessati solo ad acquistare sempre maggior potere, e questo non le era certo di aiuto.


Lo capì subito Muzio Attendolo Sforza, famoso condottiero e capitano di ventura già al soldo di Ladislao, il quale ritornò a Napoli chiamato anche da Giovanna, che lo elevò alla carica di Gran Connestabile. Lo Sforza non ci mise molto a cadere in rotta con Pandolfello Alopo, amante di vecchia data della regina, perché costui aveva troppa influenza su di lei. Praticamente, non era lei a regnare, ma il suo amante venuto dal nulla. Quanto fosse potente Pandolfello presso la regina lo dimostrò il fatto che questi arrivò al punto da far imprigionare lo Sforza con false accuse. I baroni si risentirono e per limitare i poteri dell’Alopo fecero pressione sulla regina affinché si trovasse un marito. 

Dopo varie considerazioni e ponderazioni, la scelta cadde su Giacomo di Borbone, giovane e ambizioso francese, principe della Marca. Con il matrimonio, celebrato nell’agosto del 1415, Giacomo non ottenne il titolo di re, come aveva sperato, ma solo quello di Duca di Calabria, Principe di Taranto e Vicario Generale del regno. Con questa carica, Giacomo ebbe la possibilità di fare arrestare Pandolfello nella stessa camera della regina e farlo giustiziare. Giovanna era atterrita dalla crudeltà e dall’ambizione di quel suo marito francese, il quale non si era accontentato dei titoli  concessigli, ma si era assicurato il governo del Regno, mettendo nei posti chiave uomini di sua fiducia. Fattosi associare al trono con la forza dalla spaventata Giovanna, la relegò poi  a Castelnuovo e la tenne prigioniera a lungo. Furono di nuovo i baroni a salvare la regina, portandola al sicuro nell’Arcivescovato durante una cerimonia a cui ella presenziò e assediando il principe in Castelnuovo.  Giovanna riebbe il suo trono e Giacomo fu allontanato da corte finché, nel 1419, se ne tornò in Francia. Dopo varie vicissitudini, Giacomo si pentì dei suoi peccati e si fece frate.


Il nuovo amante della regina fu Giovanni Caracciolo, meglio conosciuto come Sergianni, che ella   nominò Gran Siniscalco. Ma anche con Sergianni si ripeté quello che era accaduto con Pandolfello. Sergianni cominciò ad avere troppa influenza sulla debole regina e il suo potere cresceva sempre più. L’ inevitabile rivalità tra Sergianni e lo Sforza si tradusse in un aperto conflitto tra le milizie di quest’ultimo e quelle regie. La regina, dalla parte di Sergianni, privò Attendolo Sforza dalla carica di Gran Connestabile e lo dichiarò fuorilegge, privandosi così dell’unico uomo che davvero poteva aiutarla. 

Ci pensarono i Venti a rimettere a posto le cose. I Venti era una deputazione di nobili e popolani, equamente distribuita in 10 e 10, con il compito di sostenere il potere reale. Essi riuscirono a sanare il dissidio tra i due, ottenendo la reintegrazione della carica di Gran Connestabile per lo Sforza e l’allontanamento di Sergianni, che riparò a Roma per circa sei mesi, dove non rimase con le mani in mano, ma negoziò l’incoronazione di Giovanna con il nuovo e finalmente unico papa Martino V.


Ma dopo un mese dall’incoronazione, che avvenne nell’agosto del 1419, Martino scomunicò Giovanna  perché la regina, in difficoltà finanziarie, non aveva pagato il censo alla Chiesa  e si era  rifiutata di dare altri possedimenti al fratello del papa che già aveva avuto il Ducato di Amalfi, il Ducato di Venosa e il Principato di Salerno. Lo scontro tra il papa e Giovanna fu inevitabile e Martino decretò che erede della corona fosse  Luigi III d’Angiò oppure, in caso di morte prematura di  costui, il fratello minore Renato, sostenuti anche dallo Sforza.

Il papa aveva dalla sua anche un altro valido condottiero, Braccio da Montone, e, inoltre,  tutti i baroni del Regno parteggiavano per gli angioini. Giovanna si trovò ad affrontare una situazione molto critica e rischiava di perdere il regno. In un simile frangente, nel 1420 Giovanna decise di chiedere aiuto al re di Sicilia Alfonso V d’Aragona, a cui promise l’adozione e la successione al trono, innescando quell’altalena di adozioni e annullamenti tra l’angioino e l’aragonese,  con relativi scontri tra i due, che costarono ai francesi la definitiva perdita del regno.  


Alfonso non si fece scappare l’occasione di riunire di nuovo le due parti del regno sotto di lui e corse in aiuto di Giovanna.  Sconfisse gli angioini e grazie a una cospicua somma di denaro fece passare dalla parte della regina Braccio da Montone. Prese poi dimora a Castelnuovo (la corte di Giovanna dimorava allora a Castelcapuano), cominciando a comportarsi già come un re e facendo imprigionare il favorito della regina, Sergianni, che gli dava fastidio. 

Giovanna riebbe il suo favorito solo grazie ad uno scambio di prigionieri con l’aragonese, ma ormai era una sessantenne stanca e disillusa. Nel 1424 aveva perso anche l’aiuto di Attendolo Sforza, morto annegato mentre guadava il fiume Aterno per portare aiuto alla città dell’Aquila, assediata dall’aragonese che ora era in rotta con lei perché aveva annullato l’adozione a favore dell’angioino. E nello stesso assedio era morto anche Braccio da Montone che invece era passato al soldo dell’aragonese.  

Forte della sua influenza sulla regina, Sergianni chiedeva invece sempre di più per la sua famiglia e quando arrivò ad insultare Giovanna, che non volle concedergli il Principato di Salerno per il suo unico figlio maschio, Troiano, firmò la sua condanna a morte.


A convincere la regina a far arrestare Sergianni fu sua cugina Covella Ruffo, una donna che conosceremo meglio più avanti perché madre di Marino Marzano, la quale odiava a morte Sergianni proprio per il potere che questi aveva sulla regina a discapito del suo. Covella raccontò alla regina che Sergianni stava progettando di spodestarla e formare un triumvirato insieme al condottiero Giacomo Caldora e al Principe di Taranto, con cui spartirsi poi il regno. A sostegno di ciò che diceva, Covella portò ad esempio le imminente nozze del figlio di Sergianni con la figlia di Caldora, che avrebbero sancito il patto tra i due.


Convinta delle ragioni che le portava la cugina, la regina firmò l’ordine di arresto di Sergianni. Ma i congiurati, conoscendo la pericolosità del Caracciolo,  non si accontentarono dell’arresto: ne vollero la morte.

Ritiratosi nelle sue stanze di Castelcapuano dopo una serata mondana, Sergianni fu svegliato all’improvviso da grida concitate fuori della sua porta che gli dicevano che la regina si era sentita male e chiedeva la sua presenza. Appena aprì la porta, l’ignaro fu trafitto a morte dai congiurati. Alla regina fu invece detto che Sergianni aveva opposto resistenza armata all’arresto ed era rimasto ucciso nello scontro.


Due anni dopo la morte di Sergianni, il 2 febbraio del 1435, anche Giovanna morì, lasciando come erede e successore, nel suo testamento, Renato d’Angiò, fratello minore di Luigi III, morto pochi mesi prima.

Alfonso non accettò le ultime volontà della regina e cominciò una dura lotta con l’angioino, lotta che durò sette anni. Infine, il 2 giugno del 1442 gli aragonesi riuscirono a prendere la città di Napoli e a sconfiggere gli angioini. Dieci giorni dopo, Renato d’Angiò e la sua guarnigione francese lasciarono per sempre Napoli, mettendo la parola fine alla dominazione angioina. Cominciava per il Regno di Napoli un nuovo periodo, quello aragonese.

 cdl






Testi consultati


Archivio storico italiano, Volume 1;Volume 13

Agnese Palumbo - Maurizio Ponticelli: Il giro di Napoli in 501 luoghi - Roma, 2014

Angelo di Costanzo:  Storia del regno di Napoli – Cosenza, 1839

Archivio Storico Napoletano – tomo 13 – Firenze 1861

Francesco Capecelatro: Storia del regno di Napoli – Napoli, 1840
Filippo M. Pagano; Saggio istorico sul Regno di Napoli - Napoli, 1824
G.B. Crollalanza (diretto da):  Giornale araldico genealogico diplomatico – Vol. 1-2, Fermo, 1873-4

Giovanni Antonio Summonte; Dell’historia della città e regno di Napoli- vol. 4 – Napoli, 1675

Giovanni Bausilio: Storie antiche di una Napoli antica – Frosinone, 2016

Giovanni Gravier: Raccolta di tutti i più rinomati scrittori dell'istoria generale del Regno- Napoli, 1769

giovedì 22 settembre 2016

Gli ultimi sovrani angioini: Ladislao. Scontro con i Marzano.

Ladislao di Durazzo


Ladislao aveva solo 14 anni quando nel 1390 a Gaeta, dove era fuggito con la madre Margherita,  fu incoronato ufficialmente re di Napoli per mano del neo eletto papa Bonifacio IX, che lo aveva riconosciuto erede di diritto al trono.  
In quel periodo, la situazione del Regno di Napoli non era per niente facile. Era in atto lo Scisma d’Occidente e si ripeteva quello che era già accaduto con suo padre Carlo: due papi, due re di Napoli. Come se non bastasse, molti potenti baroni del regno, quali il Gran Connestabile Ramondello Orsino, i Sanseverino, i Della Ratta, conti di Caserta e Conversano, i Marzano, Duchi di Sessa e conti d'Alife, e tanti altri di parte angioina, si erano rifiutati di prestare obbedienza a Ladislao.  
Essi avevano occupato Napoli e costretto la regina alla fuga, proclamando re  Luigi II d’Angiò. Nell’attesa che Luigi giungesse a Napoli, i baroni costituirono un consiglio di otto magistrati che reggesse le sorti del regno in quella fase. A Napoli, Luigi giunse nel 1389 dove, quello stesso anno,  fu incoronato re da un Legato dell’ antipapa Clemente VII, e prese subito possesso del regno.

La lotta per riappropriarsi del Regno di Napoli si rivelava molto aspra e Ladislao era ancora troppo giovane per affrontarla, ma la madre fu molto previdente. Nel 1392 fece unire in matrimonio Ladislao con la ricchissima Costanza Chiaromonte per fornire al figlio i mezzi economici per combattere Luigi. Anche il papa Bonifacio fece la sua parte a favore di Ladislao: mandò denaro a Ramondello Orsino perché rifornisse l’esercito e prendesse le parti di Ladislao.

La giovane moglie di Ladislao rimase al fianco del marito solo tre anni, fino alla morte del padre che lasciò sua figlia senza mezzi e quindi inutile alla causa napoletana. Ladislao chiese allora l’annullamento del matrimonio al papa, il quale lo concesse. Ma Ladislao non si risposò subito, come era prevedibile; solo dieci anni dopo, nel 1402, si risposò con Maria di Lusignano, figlia del re  Giacomo I di Cipro. Anche questa secondo moglie stette poco tempo con il marito perché dopo due anni, nel 1404, morì senza avergli dato un erede.  

Prima di poter rientrare a Napoli, Ladislao dovette aspettare ben 10 anni, fino al 1399, anno in cui Luigi perse l’appoggio della Francia e soprattutto quella dell’antipapa Clemente VII, che nel frattempo era morto. Cinse d'assedio Napoli, costrinse alla fuga Luigi e rovesciò il governo degli otto. Poi iniziò la sua vendetta contro i baroni a lui ribelli.

Ladislao passò la sua breve vita a guerreggiare contro tutto e tutti; contro Luigi che gli aveva usurpato il Regno; contro il papa perché aveva deciso di annettere lo Stato Pontificio al Regno di Napoli; contro Firenze che fece lega con Siena per combattere i sogni di annessione di Ladislao;  contro gli ungheresi, finché non gli riconobbero il titolo di re d’Ungheria che gli spettava di diritto. Ma l’azione più energica dovette affrontarla nel suo Regno per rafforzare il suo potere contro i terribili baroni che lo osteggiavano, e dove non arrivava con la forza, arrivava con l’astuzia e con l’inganno.  

Molti baroni li fece uccidere, altri imprigionare. Riuscì a far imprigionare ben 11 membri della famiglia Sanseverino e, dopo un sommario giudizio, li fece tutti strangolare a Castel Nuovo. In quest’azione di pulizia erano compresi anche i Marzano, Duchi di Sessa e signori di Carinola, che però non furono toccati subito perché protetti da papa Bonifacio, a cui Ladislao aveva promesso di non toccarli. 
Solo alla morte di Bonifacio (1404), Ladislao realizzò la sua vendetta contro i Marzano.

A quel tempo, era duca di Sessa Giacomo Marzano, al quale re Luigi d’Angiò aveva chiesto la mano della figlia Maria semplicemente per avere dalla sua parte il potente duca di Sessa e indebolire così i partito di Ladislao. Ma Ladislao aveva capito perfettamente quali erano i piani di Luigi ed allora fece occupare la Rocca di Mondragone ed egli stesso devastava continuamente i casali di Sessa, Carinola e la pianura di Mondragone. Giacomo fu costretto a chiedere aiuto al futuro genero, che gli inviò mille cavalieri sotto il comando di Bernabò Sanseverino, per fermare le scorrerie di Ladislao. Inutilmente. 
A sua volta Ladislao mandò 110 lancieri alla Rocca di Mondragone perché ogni giorno ci si scontrava con gli angioini di re Luigi e servivano sempre forze fresche. 

Il Duca Giacomo non era certo contento di avere la guerra in casa e soprattutto di vedere i suoi sudditi così tartassati e vessati dalle truppe di Ladislao. Essi perdevano tutto, case e raccolti e si impoverivano sempre più. Giacomo cominciò a pentirsi del suo appoggio a Luigi e allora subito ne approfittò papa Bonifacio, sostenitore di Ladislao, il quale gli mandò suo fratello Giovanni Tomacelli per trattare la pace tra i Marzano e Ladislao. 

Il duca tentennava e ci vollero ben tre visite del Tomacelli per cercare di convincerlo, ma la pace stentava ad arrivare. Allora Ladislao perse la pazienza e nel 1399 cavalcò contro il Duca, gli tolse alcuni territori e per cinque lunghi mesi assediò Sessa. 
La pace fu allora conclusa a condizione che il sovrano perdonasse il Duca di Sessa e che gli restituisse i territori tolti. A pace fatta, sia Giacomo che suo fratello Goffredo fecero giuramento di fedeltà a Ladislao e le nozze di Maria con re Luigi d’Angiò furono annullate.

Ladislao si rivelò molto magnanimo con i due Marzano. Confermò Giacomo nei suoi possedimenti e nella carica di Grande Ammiraglio e  la figlia Maria, promessa a re Luigi, la diede in moglie a Nicolò de Berardi, conte di Celano, che nominò Gran Giustiziere. A Goffredo, già Gran Camerlano del Regno e conte di Alife, donò invece le città di Teano e di Carinola.

Nel 1402 morì Giacomo Marzano lasciando la moglie  Caterina Sanseverino e cinque figli: la già citata Maria, Angiola, Margherita, Isabella e il piccolo Giovanni Antonio di cui fu tutore lo zio Goffredo.

Goffredo non era uno sprovveduto e conosceva l’animo vendicativo di Ladislao:  nonostante le sue elargizioni, non si fidava di lui.  Memore della strage dei Sanseverino che Ladislao aveva fatto compiere, cominciò a far fortificare Sessa, Mondragone e Teano per non farsi trovare impreparato ad un eventuale attacco. Ma Ladislao decise di giocare d’astuzia e chiese per un suo figlio naturale di otto anni, Rinaldo, principe di Capua, la mano dell’unica figlioletta di Goffredo, anche lei di nome Maria

A Goffredo la manovra subodorò d’inganno, ma non poteva far altro che accettare. Ladislao, per allontanare qualsiasi dubbio, inviò suo figlio Rinaldo ad Alife affinché Goffredo lo crescesse in amore insieme a sua figlia. Come se non bastasse nel febbraio del 1404 riconfermò al piccolo Giovannantonio Marzano il Ducato di Sessa e lo investi del privilegio del “mero e misto imperio”. Di fronte a queste prove, Goffredo Marzano non potette più dubitare e quando Ladislao invitò tutti i Marzano di Sessa e d’Alife a Capua per festeggiare con onore i due minorenni promessi sposi Rinaldo e Maria, si fidò e accettò volentieri l’invito. 
E fece male. 

Ladislao non era uomo di pace, ma di vendetta: tutti i Marzano intervenuti furono arrestati e portati in prigione a Castel Nuovo e Ladislao si impadronì dei loro territori. Il matrimonio di  Rinaldo e Maria Marzano, figlia di Goffredo, fu sciolto. 

A questo punto furono i Marzano a giocare d’astuzia, colpendo Ladislao nel suo punto più debole: il fascino femminile. La bella Margherita Marzano riuscì a sedurre il re e a diventare la sua amante. Grazie alle armi di seduzione di Margherita, Ladislao liberò tutti i Marzano e piazzò le sorelle di lei ottimamente: Maria che aveva già sposato il Conte di Celano, alla morte di questi si risposò con Muzio (Giacomuzzo) Attendolo Sforza da cui ebbe i due figli Bartolomeo, che poi sarà conte di Celano, e Carlo, che poi diventerà arcivescovo di Milano; in terze nozze si riposò con Nicolò Orsino, conte di Manoppelo.  Angiola fu marita ad Antonello della Ratta, conte di Caserta, e Isabella al conte di Tagliacozzo  Giacomo Orsini. Il piccolo Giovannantonio fu affidato alla mamma Caterina Sanseverino. Tuttavia, Ladislao restituì solo una parte delle terre confiscate ai Marzano; il resto fu poi restituito dalla regina Giovanna II nel 1416.

Nel 1407, con una mossa d’astuzia, Ladislao si sposò per la terza volta con Maria d’Enghien, vedova di Raimondo Orsini del Balzo, principe di Taranto e conte di Lecce. Non riuscendo ad espugnare il castello della principessa e a sottometterla, Ladislao cambiò tattica e decise di chiederla in moglie. La sposò a Taranto nel 1407. Assunse personalmente il titolo di principe di Taranto, togliendolo al figlio di Maria e Raimondo, Giovanni Antonio, ed incorporò i suoi beni alla Corona, ossia a se stesso.

La guerra con Luigi d’Angiò, che non si dava per vinto, continuò tra alti e bassi. 
Nel 1413, Ladislao era impegnato nell’occupazione di Roma, dove doveva giungere Sigismondo d’Ungheria per essere incoronato Re dei Romani dal papa, che in quel periodo era Giovanni XXIII, il secondo e ultimo papa eletto dal Concilio di Pisa dopo la morte del primo, Alessandro V
Per paura che Sigismondo potesse avere delle pretese sul Regno di Napoli, Ladislao si mosse preventivamente alla volta di Roma e la occupò, costringendo il papa alla fuga a Bologna. Ma mentre era impegnato nell’occupazione cominciò a sentirsi male. Fu portato subito a Napoli dove, dopo quattro giorni di sofferenze, morì. Aveva 38 anni. 

Si pensò subito che fosse stato avvelenato, secondo l’uso del tempo di eliminare i nemici in quel modo, ma non fu il veleno ad ucciderlo bensì la sifilide. L' aveva contratta a causa di una vita sessuale molto intensa e promiscua.
Al momento della morte, Ladislao era soggetto a scomunica papale e il suo corpo fu portato a lumi spenti e senza clamore nella chiesa di S. Giovanni a Carbonara, dove sua sorella Giovanna II fece poi erigere un maestoso monumento funebre.
cdl

Monumento funebre di Ladislao - Chiesa di S.Giovanni a Carbonara


Alcuni testi consultati

Agnese Palumbo - Maurizio Ponticelli: Il giro di Napoli in 501 luoghi - Roma, 2014

Angelo di Costanzo:  Storia del regno di Napoli – Cosenza, 1839

Archivio Storico Napoletano – tomo 13 – Firenze 1861

Attilia Tommasino: Sessa Aurunca nel periodo aragonese – Roma, 1997
Francesco Capecelatro: Storia del regno di Napoli – Napoli, 1840
Filippo M. Pagano; Saggio istorico sul Regno di Napoli - Napoli, 1824
G.B. Crollalanza (diretto da):  Giornale araldico genealogico diplomatico – Vol. 1-2, Fermo, 1873-4

Giovanni Antonio Summonte; Dell’historia della città e regno di Napoli- vol. 4 – Napoli, 1675

Giovanni Bausilio: Storie antiche di una Napoli antica – Frosinone, 2016

Giovanni Gravier: Raccolta di tutti i più rinomati scrittori dell'istoria generale del Regno- Napoli, 1769






Il Grande Scisma d'Occidente



Miniatura del XV secolo raffigurante due "obbedienze papali"

Dopo circa settant’anni di stazionamento ad Avignone, la sede papale ritornò a Roma. Non fu Caterina da Siena l’artefice di questo ritorno, come comunemente si crede, ma l’ incresciosa consapevolezza  che se la sede papale non tornava a Roma, il patrimonio della Chiesa se  ne andava a farsi friggere, rastrellato abilmente dalle tante nuove famiglie emergenti bramose di ingrandirsi sempre più. Sicuramente Caterina ebbe la sua bella parte di ossessionante rompiscatole, ma i motivi reali di questo ritorno furono molto più pratici.

Lo stato di caos   in cui versava l’Italia in questo particolare periodo favoriva le numerose Signorie che erano spuntate come funghi nell’Italia centrale, le quali, indisturbate, facevano man bassa dei territori pontifici per ingrandire i propri e accrescere il loro potere. I vari  Montefeltro, Malatesta, Ordelaffi e compagnia bella stavano letteralmente mangiando gli stati pontifici e se non si ricorreva ai ripari, sarebbero scomparsi del tutto incamerati nelle proprietà di famiglia.  Il primo papa a fare qualcosa fu Clemente VI, il quale inviò a Roma il suo Legato e Vicario, il cardinale Egidio Alvarez de Albornoz, coadiuvato da Cola di Rienzo, con lo scopo di bloccare quel processo famelico.  Cola di Rienzo riuscì solo a farsi ammazzare (1354) e Albornoz, con fatica e sangue, riportò molte città sotto l’egida di Roma. Il papa si rese conto che la situazione di effimera pace riportata dal suo Legato non sarebbe durata a lungo e che la sua presenza a Roma era più che mai necessaria.

Nel 1367 fu Urbano V ad arrivare a Roma e fu accolto gioiosamente da un popolo che da ben sessantaquattro anni non vedeva un papa e che aveva dormito per tre giorni sulla spiaggia di Corneto (Tarquinia) pur di non perdersi lo storico avvenimento. Una volta a Roma, Urbano, guardandosi intorno, si rese conto dell’enorme sconfesso in cui versavano le chiese e la città, da anni completamente abbandonate a se stesse. Si diede da fare per sistemare un po’ le cose e resistette fino al 1370, poi sentendosi prossimo alla fine volle tornare ad Avignone dove morì.   

Gli successe Gregorio XI, più letterato che ecclesiastico, il quale stava proprio bene ad Avignone e non voleva affatto ripetere l’esperienza del suo predecessore. Per ben sette anni resistette agli appelli del Petrarca e alle solfe di S. Caterina, ma quello che lo fece muovere da Avignone fu l’insurrezione di tutte le città pontificie in Italia, che si ribellarono perché il Legato pontificio di Perugia aveva perseguitato con tale insistenza una donna che costei, per sfuggire al suo pressante “stalking”,  si gettò dal balcone e morì. Le città pontificie presero la palla al balzo e si ribellarono tutte, con Firenze in testa. Era il 1375 e solo la città di Roma rimase fedele al papa delle sessantaquattro che avevano precedentemente riconosciuto la sovranità papale.

Gregorio scomunicò Firenze e fece sequestrare gli ingenti patrimoni dei banchieri e dei mercanti fiorentini in Francia e in Inghilterra. A sua volta Firenze confiscò tutti i beni della Chiesa sul suo territorio e cercò di tirare nella rivolta anche Roma. Solo allora Gregorio si scosse e mandò a dire ai romani che, se rifiutavano l’invito, egli sarebbe tornato definitivamente a Roma.
Roma rifiutò l’invito di Firenze e Gregorio dovette mantenere la sua promessa. Tornò a Roma nel 1377, ma morì pochi mesi dopo, forse di malinconia per aver lasciato la sua amata Avignone.

Appena si indisse il Conclave per l’elezione del nuovo papa, i romani si affrettarono ad asserragliare il Laterano, dove  si teneva l’elezione, per timore che venisse eletto papa un altro francese. E avevano ben motivo di temerlo. Su 134 cardinali, ben 113 erano francesi. I romani cominciarono a minacciare di morte i cardinali che non sceglievano un papa romano o almeno italiano. E così in questa atmosfera minacciosa fu eletto l’arcivescovo di Bari, Bartolomeo Prignano, che prese il nome di Urbano VI, il cui caratterino non era niente male e che annunciò grandi cambiamenti. Come i romani, anche Urbano corse subito ai ripari per scongiurare una nuova possibile elezione francese e nominò una marea di nuovi cardinali in modo da assicurare agli italiani sempre la maggioranza. Tutti gli altri, suoi nemici, li fece ammazzare.

I francesi videro compromesso il loro primato e corsero ai ripari. Si riunirono ad Anagni e dichiararono nulla l’ elezione di Urbano perché strappata con le minacce dalla popolazione. Il 20 settembre 1378 elessero ad Avignone il loro papa, Roberto di Ginevra, che assunse il nome di Clemente VII. L’Occidente fu spaccato in due ed ebbe inizio il Grande Scisma che durò circa quarant’anni, fino al 1417.

Clemente VII fu subito riconosciuto dalla Francia, che forse aveva delle speranze sugli stati pontifici e aveva fatto la sua parte sottobanco, dagli Angioini  di Napoli, dalla Spagna e dalla Scozia. Gli altri stati europei rimasero fedeli ad Urbano. Le due obbedienze papali crearono conflitti e confusioni da ogni parte; per Napoli ora c’erano due canditati al Regno, uno incoronato dal papa di Avignone e l’altro da quello di Roma. Nell’ ambito dello stesso stato c’erano Signorie fedeli ad Avignone e Signorie fedeli a Roma così come c’erano due vescovi per la stessa diocesi, uno nominato da Avignone l’altro da Roma, con conseguenze che si possono facilmente immaginare, di favoritismo oppure di ritorsione e isolamento.

La Contea di Carinola non fu esonerata da questa situazione di confusione. Non li conosciamo tutti i vescovi di quel periodo; lo storico Giuseppe Cappelletti ne cita solo alcuni.
Giuliano, detto Giubino, fu fatto vescovo di Carinola nel 1363 dove rimase fino al 1388, anno della sua morte. Al momento dello scisma, rimase sotto l’obbedienza romana di Urbano VI  e questo comportò una doppia nomina vescovile per Carinola. Nel 1384, mentre era ancora vivo Giuliano, Clemente VII nominò vescovo di Carinola Matteo di Melfi e ordinò all’Arcivescovo di Corfù e al vescovo di Cosenza di deporre Giuliano, cosa che non avvenne perché Giuliano non lasciò la sua sede.  Nello stesso 1388, alla morte di Giuliano, anche papa  Urbano nominò il suo vescovo per Carinola, un Giovanni. Probabilmente fu quest’ultimo a prendere possesso della sede di Carinola perché, come fa notare don Amato Brodella, pagò le sue tasse e quelle dei suoi predecessori.
Dopo Giovanni, nel 1401 fu designato vescovo calinense Marzio o Marco, fedele all’obbedienza romana perché nominato vescovo da Bonifacio IX, successore di Urbano. Infine, un Antonio, vescovo di Carinola, figura negli atti del Concilio di Pisa del 1409 a cui intervenne e vi si sottoscrisse.

Questa situazione andò avanti per un bel po’ di anni e i papi che si succedettero, dall’una e dall’altra parte, sembravano ben felici di rimanere in carica. A nessuno di loro veniva la voglia di dimettersi a favore dell’altro per normalizzare la situazione, anzi sembravano sguazzarci dentro egregiamente.  A molti cardinali però quella situazione di sterile contrapposizione non andava giù e allora vollero correre ai ripari. 

Il 25 marzo 1409 indissero a Pisa un Concilio ecumenico che avrebbe dovuto risolvere finalmente la situazione. Rivendicando il diritto di ogni potere, il Concilio cardinalizio rivolse ai due papi in carica, Benedetto XIII e Gregorio XII, l’appello a presentarsi. Nessuno dei due lo fece e furono entrambi deposti perché riconosciuti scismatici ed eretici. Al loro posto fu eletto papa l’arcivescovo di Milano col nome di Alessandro V, seguito alla sua morte da Giovanni XXIII, e  la situazione peggiorò perché ora di papi in carica ce n’erano tre! La cosa era diventata alquanto ridicola. A questo punto intervenne Sigismondo di Boemia che, forte del prestigioso titolo di imperatore dei romani, indisse nel 1414 un Concilio a Costanza e li fece dimettere tutti e tre! Ci vollero però tre anni di minacce.

Finalmente l’11 novembre del 1417 fu eletto papa il Cardinale Oddone Colonna che assunse il nome di Martino V. Lo scisma era superato… ma aveva gettato i semi per un scisma ancora più grande che di lì ad un secolo  sarebbe sopraggiunto.
cdl


Alcuni testi consultati
Amato Brodella: Storia della Diocesi di Carinola – Marina di Minturno, 2005
Ferdinando Ughelli:  Italia Sacra – gbooks
Filippo A. Becchetti: Istoria degli ultimi quattro secoli della Chiesa – vol.1 – Roma, 1788
Gabriele De Rosa: Età Medievale – Bergamo, 1990
Giuseppe Cappelletti: Le chiese d’Italia dalla loro origine sino ai nostri giorni – vol. 20 - Venezia, 1866
Hubert Jedin: Storia della Ciesa- L’epoca dei Concili – vol. 2 – Milano 2007
Indro Montanelli: Storia d’Italia – vol 2 – Milano, 2003
Lorenzo Dattrino (a cura di): Storia della Chiesa – Roma, 1986