sabato 26 dicembre 2015

San Maurizio nell’Annunziata di Carinola: un dilemma storico

A.G.P. di Carinola - San Maurizio
Come si sa, gli affreschi sono testimonianze storiche molto importanti per gli studiosi; in essi è possibile trovare una quantità rilevante di informazioni che aiutano a ricostruire determinati periodi storici. Questo vale anche per l’Annunziata di Carinola dove gli affreschi, a saperli leggere, danno moltissime informazioni. Un affresco in particolare suscita, in chi lo guarda, curiosità e, in chi lo studia, una buona dose di perplessità che fa nascere tante domande. 
Si tratta di un affresco raffigurante un soldato con la spada sguainata verso l’alto e due teste umane nella mano sinistra.
La mia sensazione, la prima volta che vidi l’affresco, fu proprio di perplessità: non riuscivo a capire chi potesse essere quel personaggio strano, con due teste in mano. Un santo sicuramente, ma chi? Avendo la spada tra le mani ne dedussi che poteva essere un santo soldato. Fu il prof. Silvio Ricciardone, che mi accompagnava, a dare l’input, dicendo che forse poteva essere San Maurizio, ma era una rappresentazione del santo fuori dai canoni iconografici comunemente usati.
Due furono le domande che mi assillarono per un bel po’ di tempo:
1) Che ci faceva San Maurizio a Carinola? Non è infatti un santo venerato dalle nostre parti, ma nelle aree di lingua francese, dove subì il martirio o anche in alcune zone del nord Italia.
2) Chi erano i due personaggi le cui teste  teneva nella mano sinistra?
Tranne le due teste mozzate che possono rappresentare Essuperio e Candido, ufficiali della Legione Tebea decapitati con Maurizio, qualsiasi illazione poteva essere sbagliata. L’unico modo per venire a conoscenza delle cose era una seria ricerca documentaria. E così spulciando testi su testi, antichi e più moderni, navigando nei siti degli archivi di stato, qualcosa ho trovato. Ma quello che mi ha permesso di poter fare una ricostruzione storica abbastanza corretta è senza dubbio la ricca documentazione che sono riuscita ad avere dall’Archivio di Stato di Torino.

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Dalle Rationes Decimarun degli anni 1308-1310 sappiamo che a Carinola esisteva un lebbrosario intitolato a S. Maria Mater Domini, che esso dava una rendita di 20 oncia d’oro e ne pagava due di decime. 
Il lebbrosario fu forse istituito dai sovrani svevi e affidato ai frati dell’Ordine Militare Ospedaliero di San Lazzaro di Gerusalemme, il cui Priorato generale italiano si trovava nella Casa dei Lebbrosi e Ospedale di Capua. Ai frati ospedalieri i reali francesi concessero protezione e cospicue donazioni, mentre i pontefici romani concessero loro molti privilegi, soprattutto nel XIII secolo,  per cui l’ordine divenne molto ricco. 
Tra i più importanti privilegi ricordiamo quelli concessi da Papa Gregorio IX (1227-1241) che, con la Bolla del 4 Agosto 1227, esentò i beni dell’ordine da ogni tassa e con un’altra Bolla del 26 Novembre dello stesso anno concesse 20 giorni di indulgenza a chiunque facesse elemosina all’ordine. Papa Alessandro IV (1254-1261), oltre a confermare i privilegi dei pontefici suoi predecessori, confermò ai Cavalieri di San Lazzaro la Regola di Sant’Agostino che gli stessi già seguivano spontaneamente.

Papa Clemente IV (1265-1268) concesse diversi privilegi tramite tre Bolle Pontificie, due del 1265 e una 1266. Egli stabilì che:



  1. I Cavalieri di San Lazzaro venissero sepolti gratuitamente
  2. Nei cimiteri dell’Ordine potevano essere sepolti tutti, eccetto usurai e scomunicati.
  3. I Cavalieri di San Lazzaro avessero la facoltà di raccogliere, una volta all’anno, la colletta in tutte le Chiese, senza che i parroci potessero impedirlo.
  4. I beni, gli alimenti e gli animali dei Cavalieri fossero esenti dalle decime.
  5. Inoltre, la Bolla Pontificia di Papa Bonifacio VIII del 22 Novembre 1297, stabilì che i Cavalieri che versavano all’Ordine un’elemosina di 200 marchi d’argento erano esonerati dai voti, tranne l’obbligo di recarsi a Gerusalemme. 
Tra i tanti privilegi, i papi concessero che le proprietà appartenute ai lebbrosi, dentro e fuori gli ospedali, a morte di questi passassero agli stessi ospedali che li avevano ospitati. 
Il 20 Aprile del 1311, re Roberto d’Angiò inviò una lettera a tutti gli ufficiali del Regno di Napoli avvisandoli che i frati dell’Ordine ospedaliero di San Lazzaro avevano l’autorità, concessa loro dai pontefici, di costringere le persone infette dalla lebbra a isolarsi negli ospedali, prendendole anche con la forza, per allontanarle dalle persone sane. E poiché molti infetti si rifiutavano di andare negli ospedali per non far perdere alla famiglia i loro beni alla loro morte, re Roberto ordinò ai suoi ufficiali di prestare ogni possibile aiuto ai frati affinché questi potessero adempiere al loro dovere. 
Nei secoli seguenti, per recuperare i beni dei lebbrosi morti, spesso si usavano maniere poco ortodosse  per cui i frati di San Lazzaro persero molta stima tra il popolo. A questa perdita di stima va aggiunta anche la difficile situazione del Priorato di Capua, in cui molti baroni e signorotti, attratti dalle ricchezze dell’Ordine, si contendevano il titolo di Maestro e precettore della Milizia di San Lazzaro, senza esserne cavalieri. Nonostante la protezione di re e pontefici, l' Ordine italiano perse la sua antica dignità e non riceveva più molte donazioni.

I Papi del XV e XVI secolo cercarono di far sì che l’Ordine recuperasse l’antico splendore. Papa Pio IV nominò Gran Maestro dell’Ordine suo nipote Giannotto Castiglioni con la speranza che riuscisse a risollevare le sorti dell’Ordine, ma il Castiglioni si rese ben presto conto, per una serie di situazioni economiche, che l’Ordine non era in grado di reggersi autonomamente e nel 1571 si dimise in favore del Duca Emanuele Filiberto di Savoia, già Maestro dell'ordine mauriziano sabaudo.
Il Pontefice Gregorio XIII (1572-1585) prese la palla al balzo e con Bolla del 13 Novembre 1572 decretò l’unione canonica dell’Ordine di San Lazzaro con quello sabaudo di San Maurizio e Emanuele Filiberto di Savoia fu confermato Gran Maestro dell’Ordine per sé e per i suoi successori reali.
Tutte le proprietà dell’ Ordine di San Lazzaro furono unificate a quelle di San Maurizio e date in commenda ai Cavalieri dell’Ordine stesso.

Non conosciamo ancora quali furono i primi commendatari della commenda militare S. Maria Mater Domini di Carinola del nuovo unificato Ordine dei SS Maurizio e Lazzaro; bisogna arrivare al 1733 per avere notizie certe. In tale anno, la commenda di Carinola fu affidata all’abate di Santena (Torino) canonico Giovanni Amedeo Benzo, dei conti di Santena e cavaliere dell’Ordine, che la detenne per 20 anni.  In quel periodo la commenda di Carinola produceva circa 60 scudi di reddito. Ma a causa della lontananza, il conte non poteva  controllare le sue proprietà carinolesi e gli affittuari ne approfittarono per usurparne le terre ed impossessarsene.

Nel 1750, il cavaliere cosentino Gaetano Spadafora fu informato dal Vescovo di Carinola, probabilmente mons. Francesco del Plato,  che alla commenda di Carinola erano state usurpate parecchie terre, circa 13 moggia. Lo Spadafora allora fece domanda al Gran Maestro generale per ottenere la commenda, impegnandosi nel recupero dei terreni usurpati e passando al legittimo commendatario, l’abate Benzo, i 60 scudi annui di rendita. La proposta fu accordata e lo Spadafora iniziò il recupero dei terreni, venendo personalmente a Carinola e cercando negli archivi i presunti affittuari dei terreni che si erano appropriati delle proprietà. Il primo affittuario costretto a lasciare i terreni fu un Domenico Pergameno, a cui seguirono tutti gli altri. Per il 1753, grazie allo Spadafora,  la commenda di Carinola rientrò in possesso di tutti i terreni usurpati che erano i seguenti:

1.Terra campestre detta Mater Domini confinante ai due lati con la strada pubblica, da un lato con i beni di Lucrezia Marchesa Di Lorenzo, di moggia 15, passi 5, passatelli 112 e mezzo.
2.Due territori detti la Nocella e Alberone in  tutto di moggia 5, passi 127, passatelli 127 e    8/3.
3.Terra campestre detta alli Crispi di moggia 55,  passi 128, passatelli 123.
4.Due territori detti a Capotignano e e l’Arboscello di moggia 4, passi 6,  passatelli 13.
5.Terra campestre detta Viallunghi di moggia 5, passi 120, passatelli 3 e mezzo.
6.Terra con cerque e castagne detta Viallunghi di moggia 6, passi 15, passatelli.
7.Terra campestre detta la Starza, confinante con il lago di Carinola, di moggia 127, passi 4, passatelli 127.




Nel frattempo che lo Spadafora recuperava tutti i terreni, morì il legittimo commendatario, il canonico Benzo, e lo Spadafora poté diventare legittimo commendatario della commenda di Carinola. 
Essendo egli nativo del Regno di Sicilia, anche se residente a Roma, non ebbe difficoltà ad ottenere dal re di Napoli l’exequatur, ossia il beneplacito reale per prendere possesso dei beni siti nel Regno. 
Nel 1753 il cavalier Spadafora prese possesso della commenda militare di Carinola facendo l’atto di prassi dovuto: camminando su ciascun  terreno insieme a due testimoni, estirpando qualche erbaccia e se nessuno dei lavoranti aveva nulla da dire, egli veniva riconosciuto ufficialmente come legittimo proprietario del terreno. A questo simbolico atto di possesso doveva seguire la registrazione della collazione alla Real Camera di S. Chiara e di tutti i nominativi dei lavoranti delle terre, specificando le prestazioni dovute.
Grazie al recupero dei terreni e ai miglioramenti che operò lo Spadafora, la commenda militare di Carinola raggiunse la rendita di 300 scudi annui.
Lo Spadafora detenne la commenda fino al 1780, anno della sua morte, che poi passò al piemontese cavalier Ortensio Ceva Bussi, marchese.

Il cavalier Bussi ebbe invece dei grossi problemi ad entrare in possesso della commenda. Prima perché non era originario o residente nel Regno di Napoli e Sicilia, e poi per via di alcune infelici espressioni usate nella Bolla di conferimento della commenda, che diedero molto fastidio ai reali di Napoli. Il Bussi dovette ricorrere prima alla Real Camera di Santa Chiara e poi, in appello, alla Gran Corte della Vicaria. Solo nel 1783, dopo 3 lunghi anni di beghe legali, riuscì ad entrare in possesso della commenda militare di Carinola.

Fin qui le informazioni, poi si perdono le tracce della commenda di Carinola, ma le ricerche sono chiaramente ancora aperte.
c.d.l.


Alcuni testi consultati

Amato Brodella: Storia della Diocesi di Carinola – Marina di Minturno, 2005
Archivio di Stato di Torino – Documenti relativi alla Commenda militare di Carinola, S. Maria Mater Domini,  anni 1753 e 1783 - mazzo 3 e mazzo 5.
Cadetti delle truppe pontificie: Atti del martirio di S. Maurizio e compagni – Ravenna, 1845
Giovanni Maria Chiericato: Le spighe raccolte – Venezia, 1716
La civiltà Cattolica: Un superstite della legione Tebea – Vol. 9; vol. 15; Roma, 1894
Sianda Giovanni: Breviario Istorico – Lugano, 1765
Trevor  Ravencroft: La lancia del destino – Roma 1972 





domenica 13 dicembre 2015

Annunziata di Carinola: la memoria ritrovata

Ave Gratia Plena di Carinola - monaco francescano

E’ quella per la Chiesa dell’Annunziata di Carinola che era andata perduta per colpa dell’incuria. Una Chiesa poco conosciuta di cui molti ignorano addirittura l’esistenza, poco studiata anche dagli esperti. Eppure una Chiesa bellissima, importante per la storia dell’arte, suggestiva ed affascinante  per  l’intreccio tra fede e storia che la caratterizza.
Premettiamo che la breve ricostruzione storica che segue, è frutto di nostre personali ricerche, di acquisizioni di evidenze dalle principali fonti aragonesi e francescane nonché di logiche deduzioni storiche perché la conoscenza dei  beni artistici non può prescindere da esse.
Mettiamo subito  un punto fermo sulla fondazione della Chiesa che è certa. Essa fu fatta costruire dalla dinastia Angioina fra il 1315 e il 1340 per volere della regina Sancia di Maiorca e del re Roberto I d’Angiò detto il Saggio.
Sancia di Maiorca è fondamentale per la bella Chiesa dell’Annunziata di Carinola come bella è la sua storia personale. Sancia era stata formata dai francescani, era fortemente devota a S. Francesco e a  S. Chiara, aveva una sola aspirazione, quella di entrare in convento nell’ordine delle Clarisse. Non le  fu possibile, dovette infatti anche su pressioni  del Papa, sposare nel 1304 il re Roberto I d’Angio’ e adattarsi a fare la  regina di Napoli. Sancia non diede alcun erede a Roberto d’Angio’ probabilmente per un voto di castità che aveva fatto prima di sposarlo. La devozione a S. Francesco  e a S. Chiara era tale  per cui Sancia convinse il re Roberto a  realizzare tante chiese e tanti monasteri da affidare ai Frati Minori e alla Clarisse. A Napoli, fra i tanti edifici di culto, diedero vita al famoso monastero di S. Chiara.
Sancia e Roberto d’ Angio’ erano  persuasi che la fede senza le opere concrete servisse a poco, per cui a fianco delle chiese, facevano costruire strutture con finalità sociali che potevano  essere un brefotrofio come avvenne per l’Annunziata di Napoli o molto spesso un ospedale. In tale contesto storico, furono quindi edificate nella prima metà del trecento in tutto il Regno di Napoli  per  volontà di Sancia e Roberto molte Chiese dell’Annunziata o dell’Ave Gratia Plena.
Nel mese di giugno del 1313 Roberto d’Angiò fa delle donazioni alla pia moglie Sancia tra cui anche il nostro territorio.
A Carinola Sancia  resta affascinata dal Convento di S. Francesco di Casanova per cui vuole che la erigenda Chiesa dell’Annunziata sia quanto più possibile simile a quella del Convento di Casanova e questo spiega perché le due Chiese sono molto simili stilisticamente  ed architettonicamente. La Chiesa dell’Annunziata di Carinola nasce dunque come una chiesa francescana, perché devoti all’ordine francescano erano i suoi committenti.
Rispetto ad altre chiese dell’Ave Gratia Plena che in quel periodo vengono erette nel Regno, quella di Carinola, assume la dimensione di una vera e propria  cittadella monastica che ingloba il vicino  ospizio- convento della Maddalena dov’erano destinate le giovani donne che avevano avuto dei problemi molte delle quali poi si ravvedevano e prendevano i voti. Poco distante, separate dal ruscello, la Chiesa e l’Ospedale, di cui rimangono solo  le antiche mura diroccate, e l’ingresso posto alla base del campanile, dov’è ancora visibile l’affresco, che secondo Luca Menna  ritrarrebbe San Bernardino da Siena che assieme a San Giacomo della Marca si ferma più volte qui a Carinola nella Chiesa dell’ Annunziata nel periodo in cui entrambi fondarono il Santuario della Madonna dei Lattani a Roccamonfina. La presenza di questi due Santi Francescani conferma la natura spirituale prettamente francescana della Chiesa attestata anche dal“cingolo francescano” dipinto al fianco dei vari soggetti degli affreschi in particolare nella Madonne con Bambino.
La presenza poi dell’Ospedale spiega anche  la nascita della nostra Confraternita, che è tra le più antiche della Diocesi in quanto costituita tra la fine del 1300 inizio 1400 con la finalità di prestare, in uno spirito di cristiana carità,  assistenza agli ammalati.
La Chiesa dell’Annunziata di Carinola assume rilievo nella storia dell’arte, perché era stata fatta completamente affrescare lungo tutte le pareti e nelle 4 cappelle laterali chiuse. Gli Angioini privilegiavano l’elemento pittorico rispetto a quello architettonico per cui fecero confluire a Napoli i migliori pittori dell’epoca,  fra i quali Pietro Cavallini,Simone Martini e soprattutto Giotto che crearono delle botteghe e fecero scuola. E la bellezza dei frammenti e degli affreschi ancora esistenti nell’Annunziata di Carinola, dimostra che a Carinola operarono le migliori maestranze pittoriche dell’epoca.
Siamo convinti  che al di là del significato delle iscrizioni e delle epigrafi  che rimandano al mistero dell’Annunciazione, in due degli affreschi ancora esistenti  celati nella parte concava della cappella della Annunciazione, siano probabilmente raffigurati proprio i committenti della Chiesa vale a dire Sancia di Maiorca e Roberto I d’Angiò. Dopo la morte di Roberto d’Angiò  Sancia di Maiorca prende i voti e con il nome di Suor Chiara della Croce entra nel Convento della Clarisse di S. Croce a Napoli dove muore. Sarà successivamente tumulata nel famoso monastero di S. Chiara.Nella nostra ricostruzione storica della Chiesa,  dobbiamo ora fare un passo in avanti di un secolo. Dopo gli Angioini arrivano gli Aragonesi e con essi Carinola, nella seconda metà del 1400 conosce il suo massimo splendore e la sua massima importanza compresa la nostra Chiesa dell’Annunziata teatro di un evento straordinario. A Carinola Alfonso I il Magnanimo fa costruire il palazzo per la sua amata figlia Eleonora  d’Aragona che il 3 maggio del 1444 sposa Marino Marzano. A Carinola il re Alfonso passa quindi molto del suo tempo per l’affetto che nutriva per la figlia. Ad Alfonso il Magnanimo nella guida del Regno subentra il figlio Ferrante d’Aragona. Ferrante è legato da un rapporto di odio amore per la sorellastra Eleonora, deve tenere a bada il cognato Marino Marzano che congiura contro di lui, deve rapportarsi con il suo segretario tesoriere Antonello Petrucci per cui pure Ferrante è spesso a Carinola nel Castello di cui purtroppo oggi  rimangono solo  i resti.  E a  Carinola Ferrante d’Aragona si trova  appunto verso la metà del mese di novembre del 1475. Nel corso di una battuta di caccia contrae un’infezione che gli procura una febbre violenta che nel giro di pochi giorni lo debilita progressivamente. A nulla valgono le erbe medicamentose del suo medico personale. La situazione si aggrava giorno dopo  giorno. Il re Ferrante d’ Aragona, l’uomo più potente del Regno e forse d’ Italia versa in fin di vita qui a Carinola nel suo castello. Vengono  allertati tutti i dignitari di Corte e l’erede al trono Alfonso I che si precipitano qui a Carinola. La situazione è talmente grave che si  decide di chiamare San Giacomo della Marca che in carrozzella da Napoli  viene portato a Carinola dove alcuni anni prima era già stato  con San Bernardino. Il re Ferrante è morente nel Castello di Carinola e i dignitari di Corte implorano San Giacomo della Marca di ottenerne la guarigione.
San Giacomo della Marca «come arriva in città i passi subito porta al tempio vicino ed innalza le sue preghiere in favore del  re».
E’ proprio questo ultimo passaggio che, in base alle nostre ricerche, ci consente oggi di chiarire il miracolo storico compiuto qui a Carinola da San Giacomo della MarcaEgli dunque si porta tempestivo nel “tempio vicino” al Palazzo del re e poiché il palazzo del Re dove si trovava tutta la Corte non può che essere  il Castello di Carinola, ne consegue che  il tempio vicino non può che essere la nostra  Chiesa della Annunziata dove San Giacomo della Marca con San Bernardino aveva del resto più volte sostato e pregato.
E’ dunque nella Chiesa dell’ Annunziata come attestato da Giovanni Battista Petrucci, che San Giacomo della Marca  verso la fine del mese di  novembre del 1475 inizia a pregare per salvare il re  Ferrante.
La situazione di Ferrante volge inesorabilmente al peggio, il re è quasi morto, i dignitari di Corte  ritornano da San Giacomo della Marca immerso nelle sue preghiere e con le lacrime al volto lo supplicano di strappare Ferrante d’Aragona alla morte. San Giacomo della Marca sorride ed esorta ad  avere fede,  consegna ai dignitari di Corte  il suo rosario di “pietruzze” invitandoli ad appoggiarlo sul corpo del re Ferrante. Detto fatto e a questo punto Ferrante d’Aragona si alza improvvisamente e chiede di mangiare. Il miracolo è compiuto e tutte le campane di Carinola suonano a festa in segno di giubilo per l’ottenuta  salvezza del re Ferrante d’ Aragona. Subito dopo San Giacomo ha un colloquio nel Castello di Carinola con il re Ferrante nel corso del quale, conoscendo il suo animo bellicoso, lo esorta alla pace.
Dopo alcuni giorni, verso la metà del mese di dicembre del  1475 rimesso e rinfrancato Ferrante lascia Carinola per tornare a Napoli. Il periodo degli eventi descritti – novembre metà dicembre – lascia  ipotizzare che San Giacomo della Marca abbia ottenuto il miracolo nella nostra Chiesa dell’Annunziata proprio nel periodo in cui alcuni secoli dopo verrà istituita la S. Novena alla Immacolata.
A distanza di un anno dal suo  miracolo, il 28 novembre del 1476 S. Giacomo della Marca morirà a Napoli.
Ferrante avendo già dimenticato l’esortazione alla pace di San Giacomo affila invece le sue armi e si appresta a massacrare i suoi baroni coinvolti nella famosa “congiura dei baroni” tra i quali Antonello Petrucci e i suoi figli, tranne Giovanni Battista Petrucci che è un religioso devoto di San Giacomo e grazie al quale abbiamo potuto ricostruire il miracolo di cui abbiamo parlato.
La Chiesa dell’Annunziata pur perdendo nel corso dei secoli Università e l’Ospedale, conserverà una potestà laica fino ai giorni nostri ed il Rettore con ben 6 sacerdoti che si alternano nelle messe quotidiane fino alla prima metà del secolo scorso. Uno degli ultimi Rettori è stato un bravo sacerdote di Falciano del Massico don Michele Santoro, morto nel 1935 all’età di soli 25 anni lasciando un ricordo indelebile nella memoria dei nostri nonni.
Questa  per il momento la ricostruzione storica  di questa straordinaria Chiesa dove da secoli i Carinolesi onorano  la loro Regina Celeste, l’Immacolata Concezione, con una Novena impregnata di misticismo, la Messa dell’aurora dell’8 dicembre seguita dalla processione della bellissima statua dell’Immacolata, sicuramente fatta costruire nei secoli scorsi dai migliori artigiani di Napoli, adornata dell’“oro della Madonna” vale a dire dei  preziosi ex voto offerti alla Madonna nel corso dei secoli per le tante grazie ricevute che da quest’ anno sarà possibile rivedere.
Antonio CorriboloVice Priore Confraternita dell’Immacolata


domenica 20 settembre 2015

I reali Roberto d’Angiò e Sancha di Majorca.

Roberto d'Angiò e Sancia di Majorca- miniatura dalla Bibbia Angioina 1340 ca. - Leuven, Belgio, Biblioteca Universitaria

Tra i sovrani angioini che hanno fatto grande il Regno e la città di Napoli il posto d’onore va sicuramente a Roberto D’Angiò e sua moglie Sancha di Maiorcache hanno lasciato stupende testimonianze architettoniche e spirituali.
Roberto d’Angiò fu il terzo sovrano angioino di Napoli, dopo suo nonno Carlo I e suo padre Carlo II. In realtà il trono non spettava a lui, figlio quartogenito e terzogenito maschio di Carlo II e Maria d’Ungheria, ma a suo fratello primogenito Carlo Martello, che però morì nel 1295.  Alla morte di Carlo Martello il trono spettava al secondogenito Ludovico, il quale rinunciò ai suoi diritti al trono, preferendo farsi frate minore. In seguito a queste morti e rinunce, il trono sarebbe dovuto toccare a Carlo Roberto, figlio primogenito di Carlo Martello il quale, però, nel 1310, divenne re d’Ungheria e lasciò Napoli per prendere possesso del suo regno. 

Roberto aveva vent’anni e il titolo di duca di Calabria quando nel 1297, per ragion di Stato, sposò Violante o Jolanda d’Aragona, figlia di Pietro III d’Aragona e di Costanza Hohestaufen, a sua volta figlia di quel Manfredi che suo nonno aveva sconfitto a Benevento nel 1266.
Roberto e Violante ebbero due figli: Carlo e Luigi
Lo scopo di questo matrimonio era chiaramente quello di favorire un’interruzione delle ostilità tra le due casate sulla rivendicazione della Sicilia ma, nel 1303, poco dopo la pace di Caltabellotta firmata il 31 agosto del 1302, Violante morì di malaria mentre era al seguito del marito al comando delle truppe angioine che avevano invaso la Sicilia. Con la pace di Caltabellotta a conclusione della Guerra del Vespro, gli Angioini persero definitivamente la Sicilia e il Regno fu diviso in due unità: Regno di Sicilia al di qua del faro (Regno di Napoli) in mano agli Angioini, e Regno di Sicilia al di là del faro (Regno di Trinacria) in mano agli Aragonesi.

Alla morte di Violante, la ragion di Stato impose a Roberto di sposarsi di nuovo. 
Continuando la politica di Carlo II d’Angiò, il quale intendeva isolare i suoi nemici aragonesi di Sicilia, togliendo loro l’appoggio degli aragonesi di Spagna, la scelta cadde sulla giovane  Sancha, figlia di re Giacomo II di Maiorca e cugina di Violante. 
Allo stesso tempo, Maria, sorella di Roberto, sposò Sancho d’Aragona, fratello di Sancha, Con questo doppio matrimonio tra fratelli, la casa angioina rafforzò i rapporti tra la corte angioina di Napoli e i sovrani d’Aragona e di Maiorca, isolando ancora di più gli aragonesi di Sicilia.

Cresciuta ed educata  nello stretto spirito francescano, Sancha avrebbe preferito per sé una vita claustrale e non era molto contenta di questo matrimonio. Tuttavia, per ubbidienza al padre, acconsentì a sposare Roberto, anche perché il suo futuro marito era egli stesso un convinto sostenitore del movimento mendicante. 
Sancha aveva già incontrato Roberto nell’autunno del 1295, nel Castello di Siurana de Prades, presso Barcellona, dove egli era prigioniero degli aragonesi, insieme ai suoi fratelli Raimondo e Ludovico, ma le nozze giunsero inaspettate.

Nel 1305 Sancha e Roberto si sposarono e nel 1309, ad Avignone, per mano del papa Clemente V, furono incoronati Re e Regina di Sicilia e di Gerusalemme. Dal loro matrimonio non nacquero figli. Non se ne conosce il motivo: forse per una sterilità della regina o forse per la scelta della stessa di mantenersi casta per lo Sposo Celeste. Questa seconda ipotesi è la più accettata dagli storici.  
Si conosce infatti che, su concessione del papa Clemente V, già dal 1311 Sancha teneva con sé, nei suoi appartamenti, due clarisse scelte dal ministro generale dell’ordine e questo fa capire quale aspirazione serbasse in cuore una donna che si era votata totalmente alla spiritualità. Inoltre, risultano abbastanza significative due lettere del papa Giovanni XXII, indirizzate a Sancha, in cui il pontefice esorta la sovrana a tenere fede ai suoi doveri coniugali. 
Le due lettere, l’una del settembre del 1316 e l’altra dell’aprile del 1317, hanno più o meno lo stesso contenuto, ma si conosce integralmente solo la seconda. 
In questa lettera il papa si rivolge a Sancha, sottolineandole come “il nemico del genere umano sovente inganni gli incauti sottoforma di bene...” e le dice ancora che, pur sapendo come ella disprezzasse le cose mondane e nutrisse un desiderio enorme di unirsi all’Agnello immacolato, tuttavia non poteva offendere lo sposo terreno ai cui voleri ella era soggetta. D’altra parte, avvenuta la consumazione del matrimonio, un voto di castità va ritenuto inaccettabile senza il consenso del marito. Il pontefice ricorda a Sancha il senso e il valore del matrimonio cristiano: la moglie deve assistere ed aiutare spiritualmente e materialmente il coniuge e deve generargli figli, evitandogli così di incorrere nel vizio dell’incontinenza. Il pontefice conclude augurandosi che, vista la giovane età di entrambi, essi possano conseguire grazie da Dio e prole.(1)

La missiva del papa è stata considerata da molti studiosi come la risposta ad una richiesta di divorzio avanzata da Sancha. Le motivazioni per una simile richiesta, ancora una volta, sono state individuate o in una impossibilità fisica della sovrana a generare o nella convinta adesione alla castità francescana o anche come la reazione ai continui tradimenti di Roberto.
Nella stessa lettera, il pontefice esorta anche Roberto ad abbandonare le cattive compagnie, ma il fatto che il pontefice allusivamente ritenesse il libertinaggio di Roberto come conseguenza del comportamento di Sancha, la dice lunga su quale poteva essere il comportamento della regina.

Se la moglie gli si negava, altre donne gli si concedevano con piacere e Roberto, da buon re,  sapeva cogliere l’occasione. Oltre ai due figli legittimi avuti dalla prima moglie Violante, ebbe almeno due figli naturali dalle sue amanti: 1) la Fiammetta (Maria D’Aquino), di cui si innamorò il Boccaccio nel 1336 in San Lorenzo a Napoli, avuta nel 1314 probabilmente da Sibilletta di Sabran, moglie di Tommaso d’Aquino, conte di Acerra; 2) Carlo d’Artus, conte di Santagata, morto nel 1370, avuto da Guglielma di Cantelmo, moglie di Bertrando d’Artus, e familiare nonché cameriera di Sancha.

Il richiamo del papa ottenne l’effetto voluto: Sancha abbandonò i propri propositi ascetici e si dedicò a servire Dio in modo molto più concreto e tangibile, mediante la costruzione di chiese e monasteri.

Se tra i due sovrani non si sviluppò passione amorosa, si sviluppò tuttavia una reciproca stima che li portò ad essere l'una aiuto dell'altro. Roberto trovò in Sancha un'ottima collaboratrice e a lei personalmente affidò il controllo e la supervisione delle costruende chiese, nonché la possibilità di muovere i capitali necessari. La comune inclinazione verso il francescanesimo li rese i protettori dell’Ordine, a cui sarebbero state accordate larghe sovvenzioni e speciali incarichi.

Molto probabilmente Sancha aveva progettato fin da subito di stabilire a Napoli un cenacolo francescano e questo le fu possibile grazie alla compiacenza del re suo marito, che non le rifiutava mai nulla e che le assegnò moltissimi beni, con rispettive rendite. Con tali rendite a disposizione, la regina Sancha diede subito concretezza al suo sogno di costruire un monastero francescano.
Nel 1310 fu iniziata la costruzione di una chiesa dedicata all’Ostia Santa a cui sarebbero stati annessi due monasteri, uno per le clarisse e l’altro per i frati. Il complesso monumentale, dopo le denominazioni di Ostia Santa e Corpo di Cristo, fini per chiamarsi semplicemente S. Chiara, nome con cui è conosciuto ancora oggi.

Per finanziare la costruzione del monastero dell’Ostia Santa da affidare alle clarisse, il 6 giugno del 1313 re Roberto assegnò alla moglie la rendita di duemila once d’oro annue  provenienti dalle rendite di città, terre e feudi di regio demanio.
Tra i beni assegnati alla regina in Terra di Lavoro e Contea del Molise figurano: la città di Sessa con 100 once l’anno; il castello di Palma con la rendita di 100 once l’anno; la Rocca di Mondragone, appartenuta al milite Bartolomeo Siginulfo di Napoli, con 100 once l’anno; il feudo di Telese, dello stesso Siginulfo, con il casale di Pugliano, con  rendita di 140 once l’anno; il casale di Teverola con 40 once l’anno; beni appartenuti al defunto Giovanni Torsivacca in Aversa, con rendita di 33 once l’anno; i beni appartenuti a Guglielmo Camerlengo nello stesso territorio, con rendita di 40 once l’anno, e tanti altri beni ancora.  Tra il 1313  e  il 1330 l’appannaggio della Regina fu portato a ben 5000 once d’oro annue. 

Sancha  usò il suo appannaggio non solo per la costruzione di chiese e monasteri maschili e femminili, ma anche per la costruzione di case di recupero per giovani donne di malaffare e il mantenimento di comunità religiose in difficoltà. 
Non è escluso che il Monastero della Maddalena di Carinola, ora molto fatiscente, sia stato edificato nell’ambito di questo piano di costruzione di chiese e recupero di anime, così come era avvenuto per Napoli dove, nel 1324, Sancha fondò un ospizio dedicato a Maria Maddalena, il Malpasso, per donne di facili costumi che si fossero ravvedute. Dopo pochi anni l’ospizio diventò un vero e proprio monastero femminile a cui, alla  morte del marito Roberto e prima di ritirarsi definitivamente nel monastero della Santa Croce nel 1344, Sancia lasciò, con atto rogato dal notaio Giovanni Carroccello di Napoli, moltissime proprietà.

Ma il risultato più eclatante per l’impegno dei due sovrani venne raggiunto senz’altro con il riscatto dei Luoghi Santi e l’edificazione di un convento francescano presso il Santo Sepolcro, riscatto riconosciuto pubblicamente dal papa Clemente VI nella sua bolla Gratias agimus, datata Avignone 21 Novembre 1342,  diretta al  ministro generale dell’ordine dei minori e a quello di Terra di Lavoro, contenente in sostanza, l’atto di costituzione della Custodia di Terra Santa. Inoltre, il papa elargì un ulteriore diploma pontificio ad perpetuam rei memoriam con la stessa data, che riconosce ai sovrani e ai loro successori una specie di patronato con facoltà di scegliere tre laici che serviant et necessaria administrent ai dodici frati minori deputati al servizio divino della Chiesa del Santo Sepolcro di Gerusalemme.
I negoziati per il riscatto vennero condotti al Cairo, a partire dal 1332-33, dal frate minore aquitano Roger Guerin, che trattò personalmente con il sultano mamelucco d’Egitto An-Nasir Muhammad, sotto il diretto patrocinio di Roberto e Sancia, i quali fornirono cospicue elargizioni di denaro al sultano stesso. 
I luoghi concessi dal sultano furono il Monte Sion, Betlehem, il Santo Sepolcro di Cristo e la chiesa della Vergine Maria nella valle di Iosafat. Secondo L’Anonimo Francescano Tedesco che visionò la documentazione originale nel 1427, l’operazione sarebbe costata ai sovrani 20.000 ducati d’oro, mentre invece il domenicano tedesco Fabri nel 1483 parla di 32.000 ducati d’oro. 
Nel 1842, padre Cherubino da Cori, Custode di Gerusalemme, scopri documentazione relativa ad un deposito di 5 milioni di scudi effettuato da Sancha e da Roberto presso i banchi napoletani per i bisogni di Terra Santa.

Roberto morì il 16 gennaio 1343, dopo 34 anni di Regno. Sancha lo segui due anni dopo, il 28 luglio del 1345. Le loro tombe si trovano nella Chiesa di Santa Chiara, a Napoli.
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(1). (….) scimus te mundana pia magnanimi tate contenere et ad immacolati Agni nuptias totibus viribus anhelare, (….) sed nec ignoramus te charissimi in Christo filii nostri Roberti regis Siciliae viri tui sic pro lege matrimonii subijci potestate quod nec vovendo nec alis aliquid faciendo quod isi matrimonio deroger habes tui corporis potestatem…(….) et licet coelesti sponso placere desideres, oculos tamen terreni sponsi non debes offendere: quin potius servata pudicitia coniugali te sibi placidam et irreprensibilem exhibere. Nec tibi suadeat aliquis quin omnia hujusmodi vota post matrimonium carnali copula consummatum emissa sine consensu viri sint penitus reproba gravibus plena pericoli et ipsius conjugij istitutori molesta….”


 Alcuni testi consultati
A. Palumbo – M. Ponticello - Il giro di Napoli in 501 luoghi – Napoli, 2014
Adriana Valerio (a cura di) – Archivio per la Storia delle donne – vol. 1, Napoli, 2004
Bruno d’Errico – Tra i Santi e la Maddalena – pubblicazione su Internet
C. Caterino – Una Beatrice francescana della Corte Angioina – Napoli, 1927
C. De Lellis – Discorsi delle famiglie nobili del Regno di Napoli – Napoli, 1671
Enrico Artifoni – Storia medioevale – Roma, 1998        
Francesco Abbate - Storia dell'arte nell'Italia meridionale: Il Sud angioino e aragonese – Roma, 1998
G. Battista Siragusa – L’ingegno, il sapere e gli intendimenti di Roberto d’Angiò – Palermo, 1891
M. Camera -  Annali delle due Sicilie – vol. 2 – Napoli, 1857
Nicoletta Grisanti – Francescanesimo e cultura nella provincia di Catania – Palermo, 2008
Romolo Caggese – Roberto d’Angiò e i suoi tempi – vol. I – Firenze, 1930
Samantha Kelly – The new Salomon: Robert of Naples – Leiden, Netherland