La storia è nota: durante la seconda Congiura dei Baroni del
1485-1487, la più cruenta, contro il re Ferrante d’Aragona, i Petrucci, signori
di Carinola, furono accusati di alto tradimento verso la Corona e giustiziati senza
pietà. Quello che è meno noto sono le motivazioni che si celano dietro questo
episodio così spietato, che ancora oggi lascia il lettore con molti dubbi.
Dopo questa seconda congiura,
Ferrante è stato classificato da molti storici dei secoli successivi come un
sovrano crudele e spietato perchè la storiografia dei secoli successivi si
basò, più che altro, sul libro di Camillo Porzio. Ma quello del Porzio non è
l’unico testo da cui attingere le informazioni sulla vicenda; esistono altri
documenti di prima mano da cui attingere informazioni e che possono aiutare gli
studiosi a ricostruire con molta precisione l’avvenimento e le condizioni in
cui esso nacque, crebbe e si sviluppò. Sono le fonti diplomatiche, ossia le
relazioni che gli ambasciatori di altri stati italiani presso il Regno di
Napoli inviavano ai loro signori, informandoli passo per passo di tutto ciò che
accadeva nel Regno, con date e ricchezze di particolari.
Gli ambasciatori residenti a Napoli erano tre: Giovanni Lanfredini, ambasciatore fiorentino che relazionava a Lorenzo il Magnifico e ai Dieci di Balia, poi sostituito da Bernardo Rucellai; Battista Bendedei, ambasciatore ferrarese che relazionava a Borso d’Este; Branda Castiglioni, ambasciatore milanese che relazionava a Ludovico Sforza.
Gli ambasciatori residenti a Napoli erano tre: Giovanni Lanfredini, ambasciatore fiorentino che relazionava a Lorenzo il Magnifico e ai Dieci di Balia, poi sostituito da Bernardo Rucellai; Battista Bendedei, ambasciatore ferrarese che relazionava a Borso d’Este; Branda Castiglioni, ambasciatore milanese che relazionava a Ludovico Sforza.
Che Ferrante non amasse i baroni
regnicoli era risaputo. Erano diventati troppo potenti, qualcuno più dello
stesso re, ed ostacolavano qualsiasi tentativo di riforma per l’ammodernamento
del regno in favore delle nuove classi imprenditoriali: mercanti, banchieri,
artigiani che avrebbero portato nuova linfa, sia sociale che economica, in un
regno troppo stanco e provato. Il Regno di Napoli ne aveva molto bisogno perché
dal 1478 al 1484 aveva affrontato ben quattro conflitti che avevano prosciugato
tutte le risorse regie e quelle dei cittadini: il conflitto contro Firenze
(1478-1480) quello contro i Turchi per la liberazione di Otranto (1480-81),
quello contro la Serenissima
che aveva attaccato Ferrara ed il cui duca era genero di Ferrante (1482-1484)
ed infine quello di nuovo contro Venezia che aveva invaso la costa pugliese ed
attaccato Gallipoli.
Le riforme fiscali si rivelavano
necessarie ma si rivelava necessario anche un netto ridimensionamento delle
proprietà feudali a favore della Corona, rendendole demaniali. Erano finiti i tempi
delle elargizioni di feudi e terreni a questo e a quello, ora bisogna riportare
tutto sotto l’egida della Corona. Ferrante era ben
determinato a portare avanti questo progetto e più di lui lo era suo figlio
Alfonso, Duca di Calabria, che aveva un odio sviscerato per i baroni, da cui si
sentiva defraudato di potere, di beni e feudi.
Dal 1484 iniziarono le prime confische. I primi ad essere colpiti furono i condottieri d’altri stati che avevano possedimenti nel Regno e che non avevano servito il sovrano nei modi richiesti.
Nel 1485 molto scalpore fece l’arresto dei figli e della sorella del defunto Orso Orsini, duca di Ascoli, a cui seguì la confisca dei beni. L’accusa era quella che in realtà i figli dell’Orsini non erano suoi figli e non avevano diritto all’eredità. Poi fu la volta del conte di Montorio, più volte convocato da Alfonso a presentarsi e mai presentatosi.
Questi provvedimenti reali allarmarono grandemente i baroni che, nel timore di perdere i loro stati, corsero ai ripari. I maggiori baroni del Regno maturarono l’idea di deporre Ferrante e impedire la successione al trono del figlio primogenito Alfonso, ritenuto più pericoloso del padre. I ribelli si assicurarono la collaborazione dei più influenti personaggi di corte: Antonello Petrucci, segretario regio, e i suoi due figli Francesco, conte di Carinola, e Giovanni Antonio, conte di Policastro; Francesco Coppola, conte di Sarno e banchiere, maggior finanziatore della Corona; Giovanni Pou, uomo di fiducia di Ferrante, e, in misura minore, Aniello Ariamone consigliere e ambasciatore regio.
Dal 1484 iniziarono le prime confische. I primi ad essere colpiti furono i condottieri d’altri stati che avevano possedimenti nel Regno e che non avevano servito il sovrano nei modi richiesti.
Nel 1485 molto scalpore fece l’arresto dei figli e della sorella del defunto Orso Orsini, duca di Ascoli, a cui seguì la confisca dei beni. L’accusa era quella che in realtà i figli dell’Orsini non erano suoi figli e non avevano diritto all’eredità. Poi fu la volta del conte di Montorio, più volte convocato da Alfonso a presentarsi e mai presentatosi.
Questi provvedimenti reali allarmarono grandemente i baroni che, nel timore di perdere i loro stati, corsero ai ripari. I maggiori baroni del Regno maturarono l’idea di deporre Ferrante e impedire la successione al trono del figlio primogenito Alfonso, ritenuto più pericoloso del padre. I ribelli si assicurarono la collaborazione dei più influenti personaggi di corte: Antonello Petrucci, segretario regio, e i suoi due figli Francesco, conte di Carinola, e Giovanni Antonio, conte di Policastro; Francesco Coppola, conte di Sarno e banchiere, maggior finanziatore della Corona; Giovanni Pou, uomo di fiducia di Ferrante, e, in misura minore, Aniello Ariamone consigliere e ambasciatore regio.
Furono proprio Antonello
Petrucci e Francesco Coppola le anime della congiura e durante i processi
emerse come i due alimentassero le paure dei baroni e li sobillassero contro
Ferrante. Ma la congiura non si rivelò subito tale; all'inizio ebbe piuttosto carattere di
cospirazione, con incontri notturni in luoghi diversi, perché i congiurati non ebbero subito chiaro
la strategia da seguire per liberarsi di Ferrante. Solo più tardi e dopo diversi incontri si intravidero le vie da percorrere. Le vie da seguire erano
diverse: appellarsi al papa chiedendogli la difesa della loro sicurezza o alla
Serenissima; far scendere in Italia Renato d’Angiò quale pretendente al trono
oppure conservare la dinastia aragonese, offrendo però la corona al secondogenito di Ferrante,
Federico d’Aragona.
Ferrante sottovalutò le voci di una cospirazione nei suoi
confronti finché non si rese conto che i baroni avevano trovato appoggi esterni
al Regno, in primis presso Papa Innocenzo VIII, i quali potevano creargli non
pochi problemi. Cercò un accordo con i baroni, dialogando con loro e
giungendo persino a spostare la sua corte a Foggia, quando i baroni decisero di
incontrarsi a Miglionico, terra del principe di Bisignano, per stare loro più
vicino e per tenerli sotto controllo. In queste prove di dialogo gli emissari
regi erano proprio i più tenaci congiurati ossia Antonello Petrucci, Giovanni
Pou e Francesco Coppola, i quali furono costretti dalle circostanze ad un
pericoloso doppio gioco. Il Petrucci, i suoi figli e il Coppola si incontravano
frequentemente con i congiurati anche a casa del Petrucci stesso a Napoli, in una "camera terragna".
Per ben tre volte, gli ambasciatori scrissero ai loro governi che l’accordo tra Ferrante e i baroni era stato raggiunto, ma per tre volte dovettero smentire. Nessun accordo fu raggiunto.
Per ben tre volte, gli ambasciatori scrissero ai loro governi che l’accordo tra Ferrante e i baroni era stato raggiunto, ma per tre volte dovettero smentire. Nessun accordo fu raggiunto.
La ribellione fu resa palese
quando molti baroni innalzarono la bandiera della chiesa nei loro feudi e il 24
ottobre 1485 il papa pubblicò una bolla con i nomi dei signori che si erano
appellati a lui per essere difesi dalle ambizioni egemoniche del re. Allo
stesso tempo, truppe pontificie si stanziarono ai confini del regno e altre
erano già al suo interno.
La strategia che Ferrante adottò
nei confronti dei baroni fu quella di “romperli o contaminarne qualcuno”, come
scrisse il Lanfredini ai Dieci di Balia, e perciò quando ricevette per ben due volte
l’invito del conte di Carinola e del gran Siniscalco a recarsi a Sarno per un
incontro chiarificatore, il re accettò. Ma preferì non andare oltre Nola, come
probabilmente gli era stato suggerito da un informatore segreto, e questo gli
permise di sfuggire a un doppio tentativo di agguato alla sua persona. I ribelli avevano
intenzione di far giungere il re a Sarno e poi catturarlo “come lo bracco alla
quaglia”.
Non è chiaro chi fosse stato l’ideatore di questo piano; dalla deposizione
dei figli del Petrucci si rileva che il loro padre non ne sapesse nulla, ma che
una volta appresa la notizia, tacitamente l’approvasse. Paolo Ferillo,
fiduciario del principe di Bisignano, attribuisce invece l’idea della cattura
proprio ad Antonello Petrucci e a Francesco Coppola. Da altre testimonianze al
processo, emerge che i baroni avevano animo di catturare anche Alfonso il 29
maggio 1485, durante il battesimo del figlio di Roberto Sanseverino, principe
di Salerno, ma Alfonso vi sfuggì perché al suo posto presenziò il fratello
Giovanni, cardinale. I baroni riuscirono invece a prendere l’altro figlio di
Ferrante, Federico d’Aragona, il 19 novembre di quello stesso anno, sempre a
Salerno, quando, durante una celebrazione, i baroni alzarono gli stendardi della
Chiesa. Federico fu catturato insieme ad Antonello Petrucci e al Pou (!) e
tenuto prigioniero. Riuscì a fuggire da Salerno solo qualche settimana più
tardi, aiutato, pare, da un connestabile della città.
L’episodio della cattura del
figlio Federico fece rompere ogni indugio a Ferrante, che aveva sempre resistito
alle incitazioni del figlio Alfonso di colpire i baroni, ed iniziò la sua guerra aperta contro di loro. Ferrante affidò
le proprie squadre al comando dei figli Alfonso, Federico e Francesco e al
nipote Ferdinando Vincenzo e più tardi poté contare anche sugli aiuti che
giunsero da Firenze, Milano e dai parenti di Spagna e Ungheria.
A questo punto il lavoro
diplomatico si intensificò e si cominciò a parlare di pace tra le due parti, ma i punti critici
non furono superati, ossia la sicurezza dei baroni e il pagamento del censo
annuo che Ferrante avrebbe dovuto pagare alla Chiesa. Ferrante non volle pagare
il censo e i crimini commessi dai baroni verso la sua persona non potevano
garantire la loro sicurezza.
I baroni, per meglio rafforzare le loro
alleanze contro Ferrante, ricorsero a uno strumento molto in voga a quei tempi:
l’alleanza matrimoniale. Furono fatti decine di matrimoni tra le famiglie più
potenti per vincolarsi tra loro e insieme combattere il re. Ma Ferrante non
stette a guardare. Anche lui organizzò un matrimonio.
Il 13 agosto 1486 si doveva
celebrare il matrimonio di Maria Piccolomini, nipote di Ferrante, con Marco
Coppola, figlio di Francesco, per porre così fine alla dura lotta tra il sovrano e i baroni. O almeno così pensavano i più. Ma non conoscevano l'animo vendicativo e determinato di Ferrante.
Gran parte della feudalità del regno era radunata nella sala grande di Castelnuovo per assistere a questo matrimonio, ma invece della sposa Ferrante fece entrare le sue guardie. Erano presenti anche i tre ambasciatori che ebbero due notizie di prima mano: la prima fu che da tre giorni era stata firmata la pace con il papa per mano di Giovanni Pontano e Gian Giacomo Trivulzio, emissari del re; la seconda era l’arresto, in atto, di alcuni cospiratori presenti. Ferrante stesso diede i loro nomi: Antonello Petrucci e sua moglie Elisabetta Vassallo, il figlio Giovanni Antonio Petrucci, Francesco Coppola conte di Sarno con rispettivi figli, fratelli e donne.
Francesco Petrucci non era presente e si trovava nei suoi possedimenti di Carinola, dove fu raggiunto, arrestato senza resistenza e portato a Napoli.
Gran parte della feudalità del regno era radunata nella sala grande di Castelnuovo per assistere a questo matrimonio, ma invece della sposa Ferrante fece entrare le sue guardie. Erano presenti anche i tre ambasciatori che ebbero due notizie di prima mano: la prima fu che da tre giorni era stata firmata la pace con il papa per mano di Giovanni Pontano e Gian Giacomo Trivulzio, emissari del re; la seconda era l’arresto, in atto, di alcuni cospiratori presenti. Ferrante stesso diede i loro nomi: Antonello Petrucci e sua moglie Elisabetta Vassallo, il figlio Giovanni Antonio Petrucci, Francesco Coppola conte di Sarno con rispettivi figli, fratelli e donne.
Francesco Petrucci non era presente e si trovava nei suoi possedimenti di Carinola, dove fu raggiunto, arrestato senza resistenza e portato a Napoli.
Accusati tutti di lesa maestà e
crimini contro la persona del re, i Petrucci furono spogliati dei loro beni e
titoli. Il processo nei loro confronti iniziò quasi subito, il 20 agosto. Al
termine dell’istruttoria, il notaio Giovanni del Galluzzo, procuratore fiscale,
lesse le loro rispettive confessioni e diede a ciascuno dieci giorni di tempo
per organizzare la difesa, ma le prove raccolte e accumulate a loro carico
erano talmente tante che una qualsiasi difesa sembrava molto difficile.
Il verdetto fu chiaro: doveva
“essere levata ad ogne uno de lloro la testa, che in ogne modo, la loro anima
sia separata dal corpo”.
I primi ad essere giustiziati
furono i figli del Petrucci. Giovanni Antonio fu decapitato, mentre Francesco,
“lo pegio de tutti”, fu sgozzato e poi squartato. Francesco era stato coadiutore del padre nella
cancelleria regia e questo incarico gli dava accesso a documenti e informazioni che egli metteva a disposizione dei
congiurati e che fecero di lui l’elemento forse più importante della congiura. Accusarlo di alto tradimento fu l'amara conseguenza.
In realtà tra i due non correva da tempo buon sangue e le cause della loro animosità vanno ricercate nel freno che Ferrante metteva alle richieste Francesco che voleva ingrandire la sua posizione economica e sociale. In particolare, Francesco aveva anche il dente avvelenato con Ferrante perché il re non gli aveva dato il permesso di deviare un corso d'acqua a Carinola per le sue necessità, adducendo come motivazione che questo avrebbe compromesso la caccia. A Ferrante, dal canto suo, dava molto fastidio l'intraprendenza del giovane conte carinolese che, per dispetto o per spregio, voleva aprire a Carinola una cavallerizza, mettendosi in concorrenza con quella del re già presente sul territorio carinolese.
In realtà tra i due non correva da tempo buon sangue e le cause della loro animosità vanno ricercate nel freno che Ferrante metteva alle richieste Francesco che voleva ingrandire la sua posizione economica e sociale. In particolare, Francesco aveva anche il dente avvelenato con Ferrante perché il re non gli aveva dato il permesso di deviare un corso d'acqua a Carinola per le sue necessità, adducendo come motivazione che questo avrebbe compromesso la caccia. A Ferrante, dal canto suo, dava molto fastidio l'intraprendenza del giovane conte carinolese che, per dispetto o per spregio, voleva aprire a Carinola una cavallerizza, mettendosi in concorrenza con quella del re già presente sul territorio carinolese.
La descrizione della sua esecuzione ce la fornisce il Bendedei, ambasciatore
ferrarese, che lo scrisse al suo signore in un dispaccio dello stesso giorno. La descrizione del Bendedei è riportata da Elisabetta Scarton nel suo studio.
"Dopo quattro mesi di carcere, il trentenne conte di Carinola fu condotto
sul luogo dell’esecuzione. Disteso su una carretta trascinata da una coppia di
buoi, attraversò tutti i Sedili di Napoli per approdare alla piazza del
mercato. Qui, inginocchiato su un palco, dopo essersi confessato ed essersi
doluto della sua sorte con gli astanti, il ministro della giustizia gli tagliò
la gola. Per enfatizzare ulteriormente la colpa, il suo corpo fu squartato e
posto fuori città, nei crocevia delle quattro arterie principali. Il fratello
Giovanni Antonio, conte di Policastro, raggiunse a piedi la piazza e attese
l’esecuzione senza mai proferire parola".
Antonello Petrucci e Francesco
Coppola continuarono a languire nelle carceri di Castelnuovo, fino alla
decapitazione pubblica che avvenne l’11 maggio del 1487.
Jerry H. Bentley : Politica e
Cultura nella Napoli Rinascimentale - Napoli, 1995
Caminllo Porzio: La congiura de’
baroni del regno di Napoli – Napoli, 1821
Elisabetta Scarton: Poteri,
relazioni, guerra nel regno di Ferrante d’Aragona – accademia. edu
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