venerdì 29 marzo 2013

Exultet Beneventano - XII sec.

Carinola, Chiesa della Maddalena - Resurrezione - immagine ritoccata
 

Esulti il coro degli angeli,
esulti l'assemblea celeste:
un inno di gloria saluti il trionfo del Signore risorto.
Gioisca la terra inondata da così grande splendore;
la luce del Re eterno ha vinto le tenebre del mondo.
Gioisca la madre Chiesa, splendente della gloria del suo Signore,
e questo tempio tutto risuoni
per le acclamazioni del popolo in festa.
E voi, fratelli carissimi,
qui radunati nella solare chiarezza di questa nuova luce,
invocate con me la misericordia di Dio onnipotente.
Egli che mi ha chiamato, senza alcun merito,
nel numero dei suoi ministri, irradi il suo mirabile fulgore,
perché sia piena e perfetta la lode di questo cero.

Il Signore sia con voi.
E con il tuo spirito.
In alto i nostri cuori.
Sono rivolti al Signore.
Rendiamo grazie al Signore, nostro Dio.
È cosa buona e giusta.
È veramente cosa buona e giusta
esprimere con il canto l'esultanza dello spirito,
e inneggiare al Dio invisibile, Padre onnipotente,
e al suo unico Figlio, Gesù Cristo nostro Signore.

Egli ha pagato per noi all'eterno Padre il debito di Adamo,
e con il sangue sparso per la nostra salvezza
ha cancellato la condanna della colpa antica.
Questa è la vera Pasqua, in cui è ucciso il vero Agnello,
che con il suo sangue consacra le case dei fedeli.
Questa è la notte in cui hai liberato i figli di Israele, nostri padri,
dalla schiavitù dell'Egitto,
e li hai fatti passare illesi attraverso il Mar Rosso.
Questa è la notte in cui hai vinto le tenebre del peccato
con lo splendore della colonna di fuoco.
Questa è la notte che salva su tutta la terra i credenti nel Cristo
dall'oscurità del peccato e dalla corruzione del mondo,
li consacra all'amore del Padre
e li unisce nella comunione dei santi.
Questa è la notte in cui Cristo, spezzando i vincoli della morte,
risorge vincitore dal sepolcro.
Nessun vantaggio per noi essere nati, se lui non ci avesse redenti.
O immensità del tuo amore per noi! O inestimabile segno di bontà:
per riscattare lo schiavo, hai sacrificato il tuo Figlio!
Davvero era necessario il peccato di Adamo,
che è stato distrutto con la morte del Cristo.
Felice colpa, che meritò di avere un così grande redentore!
O notte beata, tu sola hai meritato di conoscere
il tempo e l'ora in cui Cristo è risorto dagli inferi.
Di questa notte è stato scritto: la notte splenderà come il giorno,
e sarà fonte di luce per la mia delizia.
Il santo mistero di questa notte sconfigge il male,
lava le colpe, restituisce l'innocenza ai peccatori,
la gioia agli afflitti.
Dissipa l'odio, piega la durezza dei potenti,
promuove la concordia e la pace.
O notte veramente gloriosa,
che ricongiunge la terra al cielo e l'uomo al suo creatore!
In questa notte di grazia accogli, Padre santo, il sacrificio di lode,
che la Chiesa ti offre per mano dei suoi ministri,
nella solenne liturgia del cero,
frutto del lavoro delle api, simbolo della nuova luce.
Riconosciamo nella colonna dell'Esodo
gli antichi presagi di questo lume pasquale
che un fuoco ardente ha acceso in onore di Dio.
Pur diviso in tante fiammelle non estingue il suo vivo splendore,
ma si accresce nel consumarsi della cera
che l'ape madre ha prodotto
per alimentare questa preziosa lampada.
Ti preghiamo, dunque, Signore, che questo cero,
offerto in onore del tuo nome
per illuminare l'oscurità di questa notte,
risplenda di luce che mai si spegne.
Salga a te come profumo soave,
si confonda con le stelle del cielo.
Lo trovi acceso la stella del mattino,
questa stella che non conosce tramonto:
Cristo, tuo Figlio, che risuscitato dai morti
fa risplendere sugli uomini la sua luce serena
e vive e regna nei secoli dei secoli.
Amen.


BUONA PASQUA

 

sabato 23 marzo 2013

Dove sono finiti i resti di Manfredi?

Ceprano: epigrafe dedicata a Manfredi 


Uno dei thriller storici più affascinanti riguarda senza dubbio la scomparsa dei resti di Manfredi  che furono trafugati dal ponte di Benevento, in cui originariamente il re era stato sepolto, per essere portati ad un luogo sconosciuto. Per ritrovarli, nel corso dei secoli, si è scatenata una specie di caccia al tesoro che continua tuttora, ma niente di certo è venuto a galla. Attualmente è Ceprano a rivendicare l’onore della sepoltura del re svevo, basandosi sull'interpretazione dei versi  danteschi del XXVIII canto dell' Inferno, ma anche su accurate  ricerche di studiosi locali.

La storia è nota ed avvincente: secondo il cronista medievale Giovanni Villani il corpo di re Manfredi, morto eroicamente nella battaglia di Benevento del 1266, fu cercato per due-tre giorni, ma non si riuscì a trovarlo perché Manfredi, al momento di scendere in battaglia, si era tolto le insegne reali che lo distinguevano e che lo avrebbero reso riconoscibile tra tanti corpi di soldati caduti.  Il suo corpo senza vita fu ritrovato da un ribaldo che lo mise di traverso su un asino e andava gridando: Chi accatta Manfredi? Chi accatta Manfredi?”. Un barone del re uccise il ribaldo e portò il corpo del suo signore nella tenda di Carlo d’Angiò che  lo fece riconoscere dai baroni prigionieri e poi ne ordinò la sepoltura nei pressi del ponte sul fiume Calore, a Benevento. Manfredi, essendo stato scomunicato più volte dal papa, non poteva essere sepolto in luogo sacro.

Ma papa Clemente IV, non contento di questo, volle far scomparire per sempre quella sepoltura,  convinto che con essa sarebbero scomparsi gli ultimi ardori ghibellini che ancora perduravano in Italia. Dal vescovo di Cosenza Bartolomeo Pignatelli, acerrimo nemico di Manfredi, fece esumare i resti dello svevo e li fece portare fuori dallo Stato della Chiesa: 
Come fu mandato il corpo di re Manfredi fora del Regno. Alli 1267, di settembre. In questo tempo venne in Benevento lo vescovo di Cosenza et trovò lo corpo di re Manfredi che stava atterrato a’ piè del ponte di Benevento, subito fè ordinare che fosse levato da detto loco, perché era scomunicato e perché lo predetto loco era terreno di Benevento et era terra della S. Chiesa; e così fu dissotterrato e mandato a sotterrare fora li confini del Regno” (B. Capasso, Historia diplomatica ).

Con il passaggio del Regno agli angioini, Bartolomeo Pignatelli era stato nominato arcivescovo di Messina e, andando a prendere possesso della nuova sede, poteva portare quei resti  altrove, in luogo sconosciuto. L’intera vicenda fu riferita da Dante nella sua Commedia con pochi magnifici versi:


Se ‘l pastor di Cosenza, che alla caccia di me fu messo per Clemente allora,
avesse in Dio ben letta questa faccia, l’ossa del corpo mio sarieno ancora  
in co’ del ponte presso a Benevento, sotto la guardia della grave mora.
Or le bagna la pioggia e move il vento di fuor dal regno, quasi lungo ‘l Verde,
dov’ei le trasmutò a lume spento.”

(Purgatorio, III, 124-132)


Questi versi hanno tuttavia dato origine ad un vero giallo interpretativo: quale territorio si potrebbe realmente intendere per “fuor dal regno”? Immediatamente fuori dei confini dello Stato della Chiesa o del Regno di Sicilia, anch’esso territorio ecclesiastico dato in feudo ai re normanno-svevi? E quale fiume per il Verde?

Secondo le ricerche di alcuni studiosi locali quali il dott. Roberto Volterra, il dott. Osvaldo Torres, l’archeologa Teresa Ceccani, il dott Gianfranco Tanzi ed altri, Manfredi sarebbe stato sepolto a Ceprano, già terra “sconsacrata” perché ai confini con lo Stato della Chiesa. A Ceprano scorre anche il fiume Liri che veniva detto il Verde. Ma tanti altri fiumi nel medioevo venivano chiamati “Verde”: il Canneto, il Sabato, il Castellano. Alcuni pensano infatti che Manfredi sia stato trasportato lungo il Canneto e non lungo il Liri. 
Secondo gli studiosi succitati, prenderebbe sempre più consistenza l’ipotesi che Manfredi sarebbe sepolto a Ceprano, non solo a causa dei versi di Dante, ma anche grazie a molti indizi da non sottovalutare. Si dice che la piccola teca custodita nella Chiesa di Santa Maria Maggiore, accanto al simulacro di Sant’Arduino, contenga proprio le ossa di Manfredi e non quelle del santo. A rafforzare questa tesi si aggiunge un ulteriore indizio: alla sinistra della teca è murato un pezzo di sarcofago marmoreo con l’aquila federiciana, proveniente da un ritrovamento fatto nel 1614. Indizi importanti che tuttavia non risolvono definitivamente il giallo.


Ma c’è una tesi ancora più avvincente che ci fornisce lo studioso Cono Antonio Mangieri nel suo intrigante studio in pdf “Le ossa di Manfredi”.


I critici moderni preferiscono identificare il Verde con il Liri-Garigliano, citando anche un’altra terzina del Paradiso dantesco che recita:

e quel corno d’Ausonia che s’imborga

di Bari di Gaeta e di Catona,

da dove Tronto e Verde in mare sgorga

(Paradiso, VIII-vv. 61-63)


Secondo il Mangieri, sono proprio questi versi che  fanno invece capire  che il Verde dantesco non può essere il Liri-Garigliano, ma che Dante abbia voluto suggerire l’esatta identificazione del fiume già menzionato nel  Purgatorio. In questa terzina  sono citati tre toponimi che rappresentano i vertici di un triangolo capovolto, il corno d’Ausonia, in cui i critici hanno visto l'intero territorio della Chiesa, sia quello papale governato direttamente dal papa, sia quello feudale, governato dai re normanno-svevi.  Il regno citato da Dante, non sarebbe quindi solo il territorio beneventano, ma comprendeva anche l'intero regno in mano a Manfredi.
Analizzando accuratamente i confini territoriale dello Stato della Chiesa e del Regno di Sicilia, il Mangieri arguisce che l’unico territorio in cui potevano essere portati i resti di Manfredi, perché non appartenente alla Chiesa,  era un territorio calabrese tra i fiumi Trointo (erroneamente detto Tronto nella Commedia) e La Verde che sfociano entrambi nel mar Ionio. Questo ipotesi giustificherebbe anche l’affidamento di tale missione al vescovo di Cosenza promosso ad arcivescovo di Messina. 
Perché proprio a lui?  In fondo, tra gli ecclesiastici,  i nemici di Manfredi erano tanti e l’esecutore materiale della missione poteva essere chiunque. 
Semplicemente perché il Pignatelli, andando a Messina a prendere possesso della nuova sede, doveva passare per quei luoghi e gli era facile nascondervi quei resti.

Una tesi molto intrigante quella del Mangieri, che se venisse provata, demolirebbe molte convinzioni. Ma sarà mai possibile provare dove effettivamente sono i resti di Manfredi?...


cdl


Testi consultati
Capasso Bartolommeo – Historia diplomatica –
http://www.classicitaliani.it/dante1/mang_manfredi.pdf
Villani Giovanni – Nuova Cronica – Tomo I - Firenze, 1844 (ristampa)

sabato 2 marzo 2013

I Pugliesi a Ceperan non furon bugiardi…



Gustave Dorè -  Illustrazione del canto terzo del Purgatorio - Dante incontra Manfredi


La tragica vicenda  di re Manfredi, caduto nella battaglia di Benevento del 1266, ha bollato per sempre i baroni meridionali come traditori; come coloro che lo abbandonarono sul campo di battaglia, primo fra tutto Riccardo di Caserta e signore di Carinola che di Manfredi era cognato.  
Ma le cose andarono proprio come raccontano i cronisti del tempo? C’è un margine di dubbio su come effettivamente siano andate le cose e che possa scagionare i baroni del Regno dall’ infamante accusa?


Uno studio del 1952 molto interessante, custodito presso l’Archivio Storico Pugliese, ce lo fornisce Pasquale Cafaro, che sviscera e analizza l'episodio  alla luce di nuove conoscenze e nuove ricerche, superando la disonorevole posizione storica in cui i baroni, soprattutto Riccardo di Caserta, sono stati collocati e dimostrando che le cose non andarono affatto così come ci sono state raccontate dai cronisti medievali. Le bugie raccontateci dai cronisti del tempo, tutti guelfi, sono state abbondantemente spazzate via da una severa analisi moderna che ridà all’ avvenimento una dimensione più veritiera.


I primi cronisti che scrissero la cronaca riguardante la fine di Manfredi e del periodo svevo furono Ricordano Malespini (1220-1290), cronista  di parte guelfa, e Saba Malaspina (stessa casata di Ricordano)  vescovo e storico, anch'egli di parte guelfa, ma espositore dei fatti molto più obiettivo  del suo parente. Sulle notizie riportate dai due, Giovanni Villani  impiantò la sua Nova Cronica, a cui attinsero gli storici posteriori ed anche Dante Alighieri per la sua Commedia.


Come raccontano i Malaspina, quando Carlo d’Angiò si preparò ad invadere il Regno di Sicilia, lo fece dal passo di Ceprano, attraversando il ponte sul Liri. Essendo il passo una delle uniche due vie d’accesso al Regno, Carlo lo temeva perché lo riteneva ben presidiato. Invece lo trovò sprovvisto di guarnigioni e poté passare liberamente, dirigendosi verso Benevento. Questa mancanza di presidio in un luogo d’accesso cosi importante fece nascere la storia del tradimento di Riccardo di Caserta a cui era affidato il comando della guardia del passo.  Per giustificare il tradimento del conte casertano, Giovanni Villani inventa una brutta storia di amore incestuoso tra Manfredi e sua sorella Violante, moglie di Riccardo, proprio nel momento in cui Riccardo era impegnato a combattere per  la difesa del Regno. Avvertito della cosa, Riccardo si vendicò del cognato, lasciandogli il passo incustodito e permettendo al d’Angiò l’entrata nel Regno. 

A parte il fatto che è alquanto improbabile che, in momento così tragico per il suo Regno, Manfredi pensasse a soddisfare le sue lussurie e per di più con la sua sorellastra, inoltre il Villani non considerò o non sapeva che Violante era già morta da diversi anni e che Riccardo si era risposato nel 1261 con Gherardesca del Duca
Fole pretestuose quelle del Villani che però facevano molto effetto sulla gente del tempo e perciò venivano usate spesso. Storie simili le ritroviamo di nuovo due secoli dopo a giustificare il tradimento di Marino Marzano nei riguardi di Ferrante d’Aragona, così come le ritroviamo anche in Inghilterra per giustificare l’assassinio di Anna Bolena voluto da suo marito Enrico VIII.  
D’altra parte, i cronisti guelfi non avevano mano leggera con  Manfredi. Pur di metterlo in cattiva luce ne dicevano di tutti i colori contro di lui che, invece, era considerato dagli storici e dai letterati un vero esempio di cavalier cortese. Lo avevano già accusato di aver soffocato con un cuscino il padre morente, Federico II, e di aver velocizzato la morte del fratellastro Corrado, pur di impadronirsi del Regno. Ora lo accusavano di nuovo di un' azione tra le più orribili.

Sulla sconfitta di Manfredi a Benevento, Ricordano Malespini insiste sul tradimento di Riccardo di Caserta, che lasciò incustodito il ponte e abbandonò il campo di battaglia. In realtà,  quando Carlo d’Angiò entrò nel Regno, il “traditore” Riccardo era a difendere San Germano  insieme a Giordano d’Anglona, ma i due non ci riuscirono perché le loro forze erano inferiori a quelle dell’angioino, che riuscì a prendere sia San Germano che Rocca d’Arce. 


Cosa era dunque successo? Perché le forze sveve non erano all’altezza di quelle dell’angioino? 


Due erano allora le strade d’accesso al Regno: la prima più a ovest, era quella ai piedi dei monti Lepini e Aurunci, e che lungo Sezze e Priverno (la zona dell’Appia era completamente impaludata) portava a Capua; la seconda, più all’interno, era quella che immetteva nel Regno a Ceprano e che, lungo la valle del Liri prima e del Volturno poi, portava a Benevento. Manfredi, non sapendo quali delle due strade avrebbe preso l’angioino, divise le sue forze tra Capua e Benevento. 

Il più credibile Saba Malaspina, nella sua cronaca, afferma che Manfredi lasciò incustodito il passo di Ceprano di proposito, per poter attirare il nemico in campo aperto e poter colpire “l’uccello che da se stesso era venuto a mettersi in gabbia”(1), secondo l’espressione dello stesso Manfredi. 

La conferma di quest’azione strategica la troviamo anche negli Annali Genovesi, negli Annali Piacentini Ghibellini e in altre cronache del tempo, come ci dice il Cafaro, ma in nessuna di queste cronache si parla di un tradimento. 
La Cronaca d’Asti e gli Annali di Modena ci parlano di una piccola schermaglia sul ponte sul Liri, ma ancora una volta non si parla di tradimento, isolando così l’affermazione del Malespini e quella di Villani che da lui attinse. E’ ancora il Cafaro che scrive, “…il Burman nella Descrizione della vittoria di Carlo I, non fa alcun cenno di difesa del passo di Ceprano, molto meno di tradimento, che avrebbe certamente messo in evidenza, se ci fosse stato,  per più vituperare il nemico vinto(Cafaro, pag. 245).

Anche l’accusa fatta dal Villani al conte di Caserta cade. Secondo il Villani, Riccardo, dopo il tradimento si ritirò nei suoi possessi e non lo si vide più. Lui stesso cade però in contraddizione quando ripresenta Riccardo il 10 febbraio ancora fuggiasco a San Germano. Ma a dare il colpo di grazia alla sua bugia ci pensa una lettera di papa Clemente IV del 25 marzo 1266, scritta al cardinale di S. Adriano, in cui si raccontano le operazioni militari di Carlo (Capasso, pag. 240 ). Nella lettera il papa cita il conte Riccardo al comando della fortezza caduta il 12 febbraio 1266 (2 ), e dice ancora che, dopo la battaglia di Benevento, il conte di Caserta e il conte d’Aquino, i due cognati di Manfredi, “pacem cum rege fecerunt”. Fecero la pace con il re Carlo d'Angiò dopo la battaglia di Benevento, quando Manfredi era già morto e la causa sveva perduta, non prima!


Ma cosa avvenne dunque a  Benevento?


Caduta  San Gemano nelle mani di Carlo I, Manfredi si portò nella piana di Benevento dove attese il nemico in campo aperto, ma gli arcieri saraceni furono subito sbaragliati  e, al sopraggiungere della cavalleria sveva, i francesi, non tenendo conto delle norme  di guerra, colpirono al ventre i cavalli, facendo cadere i cavalieri che furono uccisi ad uno ad uno. Il terzo scaglione svevo, costituito dalle milizie feudali al comando dei baroni pugliesi, non intervenne nel combattimento. Perché? Secondo un’accurata e verosimile ricostruzione della battaglia, quando Manfredi si rese conto che tutto era perduto nel rapido scontro, si gettò nella mischia pronunciando le famose parole: malo hodie mori rex in acie quam vivere exul et calamitosus, (meglio morire oggi da re in combattimento che vivere esule e miserabile). 

Il terzo scaglione non volle o non poté intervenire nel combattimento perché già accerchiato dai francesi? Probabilmente ritenne inutile intervenire in una battaglia già definita per la rapida morte di re Manfredi  E questo mancato intervento da parte dei baroni ha fatto nascere nei cronisti il sospetto del tradimento.

Ma tre giorni dopo, quando infine  si trovò il cadavere di Manfredi e fu portato nella tenda di Carlo, a riconoscerlo furono chiamati proprio Riccardo di Caserta e Giordano d’Anglona che erano tenuti, come scrive il Morghen, in stato di “prigionieri” e non in condizione di “fedeli di Carlo” come questi scriverà al papa. Nel riconoscere il cadavere del loro re, scrive Saba Malaspina, i due baroni si piegarono in accorato pianto. I due chiesero poi a Carlo di concedere a Manfredi onorata sepoltura, come si conveniva ad un re morto da eroe, e Carlo rispose che non poteva far seppellire il corpo di uno scomunicato in luogo santo. Lo fece però seppellire nei presi del ponte di Benevento e tutti i soldati, vincitori e vinti, onorarono il caduto re, mettendo sulla sua sepoltura un sasso, dando origine cosi alla “grave mora”, il pesante mucchio di pietre, di cui parla Dante nel terzo canto del Purgatorio

Finì così l’avventura umana di re Manfredi che anche da morto fu oggetto della rancorosa politica guelfa. Papa Clemente IV, per il timore che la sua tomba diventasse meta di pellegrinaggio ghibellino e ne mantenesse viva la fiamma, ordinò che i resti di Manfredi fossero rimossi e sepolti fuori dal Regno, si pensa lungo il Liri. Ma anche su questa ipotesi c'è molto da discutere.

E finì anche l’avventura umana di Riccardo di Caserta, primo sospettato, che morì di crepacuore pochi mesi dopo. La storia, per ora, non è in grado di dirci se in Riccardo avesse realmente attecchito l’onta del tradimento o se egli fosse solo la principale vittima dei cronisti di parte guelfa, fatto è che la sua casata, con l'arrivo in Italia di Corradino,  continuò a combattere per la causa sveva fino ad essere completamente annientata. 

Se un debito ci fu da parte di Riccardo verso Manfredi, quel debito fu abbondantemente pagato da suo figlio Corradello le cui gesta vedremo nel prossimo articolo. 
E se tradimento ci fu, esso va imputato in primis ai ghibellini del centro-nord che, per corruzione e per convenienza, lasciarono passare l'esercito francese senza fermarlo, determinando la tragica situazione che spazzò via per sempre la casata più illuminata del Regno di Sicilia.
cdl




Alcuni Testi consultati
Bergher E. – Les Registres d’Innocent IV – vol. II –Paris, 1887
Cafaro Pasquale – Se i Pugliesi furono bugiardi a Ceprano – studio in pdf
Capasso Bartolommeo – Historia diplomatica Regni Siciliae – Battipaglia (SA), 2009 (ristampa)
Colasanti  G. – Il passo di Ceprano sotto gli ultimi Hohenstaufen (1912) – Ceprano, 2003 (ristampa)
Del Giudice Giuseppe  - La famiglia di re Manfredi - Napoli, 1880
Di Cesare Giuseppe – Storia di Manfredi  re di Sicilia e di Puglia – vol. 1 – Napoli, 1837
Jamsilla Nicolaus - Historia de rebus gestis Friderici II imperatoris, in L.A. Muratori in  Rerum. Italicarum  Scriptores,  vol. VIII, Mediolani 1726, 
Malaspina Saba –  Rerum Sicularum Historia (1250-1285), in G. Del Re, Cronisti e scrittori sincroni napoletani, II, Cronisti e scrittori sincroni della dominazione normanna nel Regno di Puglia e di Sicilia, Napoli 1868
Malespini Ricordano – Istoria Fiorentina coll’aggiunta di Giachetto Malespini e la Cronica di Giovanni Morelli – Firenze, 1718 (ristampa)
Morghen Raffaello – Il tramonto della potenza sveva in Italia -1250-1266 -  Milano-Roma

(1) velut avis in cavea!

(2) “cum Carolus…Roccam Arcis..,obtinuisset villa S.Germani invadens, quam Casertanus et Jordanus comitem cum multis Teutonici set Lombardi et Saracenis  munierant… manuali congressu violenter intravit…(Capasso , Historia, pag. 317, n.520)