giovedì 28 giugno 2012

Amyclae città sommersa

Panorama della Piana di Fondi - dal sito www.turismopontino.net




Ancora una volta mi ritrovo a deviare dal tracciato principale e fare un passo indietro nella storia per il piacere degli amici di Fondi e di Mondo Aurunco, lettori di questo blog, che vorrebbero io approfondissi la storia della mitica città di AMYCLAE. Onestamente, non sapevo nulla di questa città della piana di Fondi che la tradizione vuole sommersa dal lago o dal mare, così come la nostra Sinuessa fu sommersa dal mare in seguito a fenomeni di bradisismo. Approfondendo gli studi di molti archeologi inglesi ed americani e quelli di Lorenzo Quilici e Stefania Quilici Gigli, ho scoperto delle cose davvero molto affascinanti, che hanno il carattere della leggenda più che della storia. Tuttavia proprio queste leggende fanno emergere l’importanza di un territorio ancora poco studiato e poco valorizzato.

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Il nome Amyclae  richiama mondi lontani, nel tempo e nello spazio. Mondi leggendari popolati di ninfe dai nomi affascinanti: Amantea, Calypso, Pasifae, divinità minori che gremivano il complesso universo della mitologia greca. E la sensazione di fascino che mi da questo nome non è affatto sbagliata perché tutto ebbe inizio proprio là, nell’antica Grecia, dove un pezzo di Storia, partendo dai monti del Peloponneso, si è staccato e srotolato lungo il Mediterraneo e, diventando leggenda, è approdato sulle coste italiane, nella piana di Fondi…

L’antica Amiclae pre-spartana sorgeva nella Laconia nei pressi del fiume Eurota, in una piana verdeggiante alle falde del monte Taigeto che ad essa apparteneva.   La leggenda vuole che fosse stata fondata intorno al 1485 a.C. da Amiclas, figlio di Lacedemone, che le diede il suo nome.  
Amyclae era molto probabilmente la capitale dei re Achei. Secondo Stesicoro e Simonide (frammento 177) in essa abbondavano monumenti importanti tra cui le tombe di Cassandra ed Agamennone che, secondo una tradizione, regnò su questa città. Amyclae aveva però lo svantaggio di trovarsi troppo vicina alla dorica Sparta (solo venti stadi, circa due miglia e mezzo), allora formata da quattro villaggi (oboi), ma che si accingeva a diventare la potenza militare che, insieme ad Atene, dominò il mondo greco. Si può facilmente capire quanto facesse gola agli spartani la conquista di Amyclae durante l’espansione dorica nella Laconia, di cui Sparta divenne poi la metropoli principale. Non  solo per una questione politica; soprattutto per una questione di prestigio. 
Le altre città micenee (o achee) erano capitolate subito, ma Amyclae resistette a lungo perché tutte le forze achee si concentrarono nella sua difesa e solo per il tradimento di un suo cittadino, Filonomo, si arrese definitivamente agli Spartani. Era il IX secolo a.C. ed era re Teleclo
Pausania, scrittore e geografo del II secolo d.C. scrive: Durante Regno di Teleclo i Lacedemoniani presero Amyclae, Pharis e Gerontrae che erano in possesso degli Achei.  I popoli delle ultime due città furono costernati all'avvicinarsi dei Dori e capitolarono a condizione di avere il permesso di ritirarsi dal Peloponneso. Ma gli Amycleani non furono conquistati al primo assalto, ma solo dopo una lunga resistenza e molti fatti importanti. E i Dori convalidarono l'importanza di  questa vittoria con un trofeo che edificarono sugli Amicleani (il tempio di Giove Tropeo – ndr)".  Amyclae andò così a comporre il quinto villaggio (oba) di Sparta da cui però, nel tempo, guadagnò una certa autonomia amministrativa, ma non l’indipendenza.  

Verso il VI secolo a.C.  un gruppo di greci guidati da Glauco, figlio di Minosse, e dagli stessi Castore e Polluce, protettori di Sparta,  approdò sulle coste tirreniche per fondarvi una colonia. I nuovi venuti rimasero affascinanti da un luogo lungo la costa tirrenica chiamato Valmarino, molto simile al loro territorio d’origine, in cui due piccoli fiumi non avevano sufficiente pendenza per arrivare al mare e le loro foci erano impedite da cumuli di sabbia. Il terreno ne risultava un po’ paludoso proprio per la mancanza di pendenza e dal lago che si formava uscivano due piccoli fiumi che chiamarono Fundano e Amiclano, oggi Canneto e S. Anastasio. Secondo il Galanti, un tempo sul S. Anastasio trafficavano barche di una certa grandezza, mentre il Canneto, più a settentrione, faceva da confine con il tenimento di Terracina. Gli studiosi della Real Accademia di Napoli ritengono che il Canneto, e non il Liri come comunemente si ritiene, potrebbe essere il Verde di cui parla Dante nel  Purgatorio (canto III, vv 103-145). Presso tale fiume sarebbe stato disperso il cadavere del re Manfredi, portato fuori dallo Stato della Chiesa per ordine di Bartolomeo Pignatelli, vescovo di Cosenza, e con il consenso di papa Clemente IV, a candele spente e capovolte, come si conveniva ad uno scomunicato:

Se il pastor di Cosenza, che a la caccia
di me fu messo per Clemente allora,
avesse in Dio ben letta questa faccia,
l’ossa del corpo mio sarieno ancora
in co' del ponte presso a Benevento,
sotto la guardia de la grave mora.
Or le bagna la pioggia e move il vento
di fuor dal Regno, quasi lungo ‘l Verde,
dove le trasmutò a lume spento.

Sulla riva del lago che guarda verso il mare sorse la nuova Amyclae (o Amunclae).  
Plinio narra che essa fu distrutta dai serpenti: Amyclae serpentibus deletae (Plinio – Hist. Nat. lib.3, § 9, ver. 6). Ora, si potrebbe anche pensare che in luogo paludoso abbondassero serpenti i quali costrinsero gli abitanti di Amyclae ad abbandonarla, ma sarebbe veramente possibile? In realtà sembra che l’Amyclae fundana fu distrutta dai Volsci, che stanziavano in zona e il cui nome, nella loro  lingua, per un’assonanza, poteva significare serpenti. 
Una spiegazione logica all'affermazione di Plinio tenta di darla Servio Mario Onorato, grammatico e commentatore dell’Eneide di Virgilio. Egli sostiene che gli amiclani fossero seguaci delle dottrine di Pitagora, il quale proibì ai suoi seguaci di mangiare carne perché convinto che l’anima umana potesse migrare in corpi di animali. Per la stessa ragione impose di non ammazzare nessun tipo di animale. Per le loro convinzioni dottrinarie, gli amiclani non uccidevano i serpenti che popolavano i vicini acquitrini ed essi divennero talmente numerosi ed invadenti che costrinsero gli abitanti ad abbandonare la città. 
Un’altra tradizione sostenuta dallo stesso Servio e da altri autori del passato si basa sul "silenzio" di Amyclae quale causa della sua distruzione.
Virgilio nell’Eneide scrive:


Magnanimo Volscente satum, ditissimus agri
Qui fuit Ausonidum, et tacitatis regnavit Amyclis
(Eneide, X, 563)

Alcuni studiosi  ritengono però che Virgilio abbia trasportato una leggenda  dell' Amyclae laconiana all' Amyclae fondana.

E l’ultimo verso del Pervigilium Veneris, anonimo componimento poetico dell'età imperiale, recita:
 “Sic Amiclas, quum tacerent, perdidit silentium” (il silenzio distrusse Amyclae). 

 Silio Italico  invece scrive:

.Sinuessa tepens fluctuque sonorum
Vulturnum, quasque evertere silentia Amyclae
Fundique et regnata Lamo Cajeta domusque
Antiphatae compressa freto.
(Lib. VIII, v. 527)

Due le  opinioni su questo attributo ricorrente di Amyclae: 
1) che ai suoi abitanti fu imposto il silenzio come legge per mettere un freno ai falsi allarmi di attacchi nemici che ogni giorno circolavano e che atterrivano la popolazione.  Quando infine il nemico arrivò sul serio, trovò la città indifesa e la distrusse. 
2) la causa della distruzione di Amyclae va comunque cercata nella dottrina del silenzio di Pitagora di cui gli amiclani erano seguaci, come ritiene Aulo Gellio, giurista e scrittore romano del II secolo d.C. 
A coloro che volevano seguire la sua dottrina, Pitagora imponeva un silenzio totale di cinque anni ed esso  fu la causa della distruzione di Amyclae, perché nessun abitante aprì bocca per dare l’allarme all’arrivo del nemico.


Gli studi più recenti fatti nella piana di Fondi sono quelli di Lorenzo Quilici e Stefania Quilici Gigli, i quali ritengono che l’antica Amyclae fondana fosse sul monte Pianara e non sulla costa. In seguito a minuziose ricerche in zona, hanno trovato e misurato mura che potrebbero essere quelle di un’antica città, apparentemente estesa per 33 ettari, e che potrebbe essere stata attiva tra il VI e IV secolo a. C.

Ma l’ipotesi Pianara  trova delle fiere resistenze tra gli studiosi. Alcuni sostengono che la città trovata dai Quilici sia molto più piccola ed appartenga a popolazioni italiche locali, i Volsci ad esempio; inoltre, la tradizione antica vuole Amyclae fondata sulla costa e non sul monte. Volerla su un monte significherebbe vanificare le informazioni di tanti illustri scrittori e studiosi del passato che ne hanno parlato. Altri ancora sostengono che Amyclae potrebbe non essere mai esistita ed essere solo un’invenzione storiografica, cosa molto diffusa nella nostra penisola.

C’è però ancora un’ultima ipotesi, derivata da una frase di  Pietro Arduino, botanico di Padova del XVIII secolo,  in una nota  a Plinio il Vecchio sui vini:.... "in litorale positae, hodie Sperlonga, unde sinui amyclano nomen".  

La Sperlonga di oggi sarebbe dunque l' antica Amyclae. 

Di quest'ultima intrigante ipotesi nessuno può darcene certezza; probabilmente nemmeno eventuali altri studi e  ricerche. Ma mi piace credere che l’affascinante leggenda di Amyclae abbia in essa la sua base storica che l’ha conservata, sebbene trasformata, fino ai nostri giorni.
c.d.l.


Alcuni testi consultati
 
Cramer John Anthony – A  geographical and historical description of ancient Italy – vol. II – Oxford, 1826
Desiderius Erasmus – R.A.B. Minors – Adages – vol. 3-  Toronto, 1989
Galanti Giuseppe Maria – Della descrizione geografica e politica delle Sicilie – Napoli 1793
Kennel Nigel M. – The Gymnasium of Virtue: Education and Culture in ancient Sparta-  The University of North Carolina Press, 1995
Lempriere John –  A classical dictionary – London, 1801
Muller Karl O. -  The history of antiquities of the Doric race – vol. 1 – Oxford, 1830
Nibby  Antonio – Elementi di archeologia – Roma, 1828
Publio Virgilio Marone – Eneide – Ed. Scolastiche Mondadori, 1972
Quilici Lorenzo e Quilici Gigli Stefania – La forma della città e del territorio, vol. 3 – Roma, 2006
Reale Accademia di Napoli – Rendiconto delle tornate e dei lavori della Reale Accademia di Napoli – Napoli, 1867

martedì 19 giugno 2012

Sapore di medioevo: Calendimaggio a Valledoro

Balli  al Calendimaggio

Tra le persone che si sono distinte per l'opera di tutela  del patrimonio artistico carinolese, un merito particolare spetta senz’altro alla nostra concittadina signora Adele Marini Ceraldi, romana trapiantata da tempo nel Comune di Carinola, che per anni si è impegnata affinché esso fosse salvaguardato e valorizzato. Se oggi la Basilica di Foro Claudio è stata restituita al culto stupendamente restaurata lo dobbiamo anche a lei che, nel corso della sua vita, ha denunciato, segnalato, sollecitato, scritto, combattuto un po’ come don Chisciotte contro i mulini a vento, perché erano anni difficili, anni in cui la conoscenza e l’apprezzamento del proprio patrimonio era quasi inesistente e di conseguenza scarso l’interesse e la tutela.  Lei, con tenacia, è andata avanti senza mai perdersi  d’animo; con  forza e  determinazione, ma soprattutto con l' umiltà e la discrezione che solo le persone di una volta possono avere. Il suo impegno  fu molto apprezzata dal Soprintendente ai Beni Culturali della Campania, dott. Fausto Zevi, che la nominò ispettrice onoraria per i Beni Archeologici di Napoli e Caserta
A lei dobbiamo anche il recupero e la ristampa del libro del notaio Luca Menna “Saggio istorico della città di Carinola”, dato alle stampe la prima volta nel 1848, e che ha riportato all’attenzione dei carinolese il loro passato.

Leggendo la monografia La Basilica di Santa Maria in Foro Claudio, da lei pubblicata  nel 1990 e regalatami molto gentilmente da suo figlio Enzo, ho avuto la sorpresa di  leggere delle pagine davvero  interessanti. Quella che mi ha colpito in modo particolare riguarda un Calendimaggio, festa di primavera, che si usava tenere a Foro Claudio nel medioevo. Su questa festa, la signora Marini Ceraldi ci fornisce delle stupende informazioni  che vanno assolutamente trasmesse ad un vasto pubblico, non solo carinolese. 

Come si può leggere nella monografia, l’appellativo Forum veniva dato a tutte le città di una certa importanza che i romani fornivano di tanti "comfort" e alle quali era concesso anche il privilegio di amministrare la giustizia, tramite un pretore, e di tenere pubbliche fiere. 
Nel territorio carinolese, come sappiamo, c’erano due città fregiate di questo appellativo: Foro Popilio e Foro Claudio. L’una prendeva probabilmente il nome da qualcuno della gens dei Popilii, l’altra da  un nobile romano di nome Claudio che nel 386 divenne pretore della città. Entrambe erano dotate di un anfiteatro per gli spettacoli e di una basilica pagana per le riunioni pubbliche e per l’amministrazione della giustizia. 
Con l’avvento del cristianesimo, le basiliche pagane furono trasformate in basiliche cristiane e più tardi divennero sedi episcopali. 
Dopo la caduta dell’impero romano,  i Conti di Carinola vollero continuare a ricordare il privilegio che la loro città aveva avuto di amministrare la giustizia e di tenere fiere,  istituendo una suntuosa fiera di tre giorni che si teneva ogni anno ai primi di maggio nella città di Foro Claudio. Era il cosiddetto Calendimaggio, festa molto in uso nel medioevo in tante importanti città italiane. 

A Valledoro, probabile nome medievale di Ventaroli e da cui quest'ultimo deriva, la festa aveva inizio con l'elezione di un Maestro di Fiera, che fungeva da Giudice popolare (pretore), detto banderale. La signora Ceraldi avanza un’ipotesi molto interessante su questa figura e che potrebbe dare una spiegazione più logica al gruppo di pitture dei mestieri presenti nell’Episcopio di Ventaroli. Secondo lei, è molto probabile che il banderale venisse scelto, di anno in anno, in una di queste corporazioni di lavoratori medioevali raffigurate nell’Episcopio.
Personalmente avanzo un’altra ipotesi, a completamento di quella della signora Marini Ceraldi, ossia che dopo ogni nomina annuale, a fine festa il banderale di turno facesse raffigurare la vignetta della propria corporazione d'appartenenza come segno di ringraziamento alla Vergine. Se così fosse, osservando le vignette in successione, si poteva capire da quale corporazione era stato preso negli anni il banderale. La presenza di date sarebbe stata di valido aiuto, ma purtroppo tutto le ipotesi rimangono nella sfera del dubbio. 

Il banderale  veniva accompagnato al Seggio di Giustizia da un corteo di gentiluomini a cavallo dove, aiutato da una Corte detta Nundinale, amministrava la giustizia “ad horas” nei tre giorni di festa. I cavalieri erano preceduti dal Gonfalone della Città  e dal Pallio con l’effigie del protettore San Giovanni, portati da due paggi e accompagnati nel loro andare da rulli di tamburi e squilli di trombe. L’intero corteo, alla cui coda era  tutto il popolo festante, partendo dalla strada Regia (la via Appia) giungeva a piedi all’Episcopio, dove rendeva omaggio all’immagine della Madonna.  Poi si proseguiva per il pubblico sedile dove si insediava il banderale
Durante i tre giorni di festa si teneva anche una corsa di cavalli che richiamava sul posto i migliori cavalieri della contrada, nobili e popolani. I festeggiamenti si chiudevano con il corteo di nuovo in marcia che, facendo lo stesso percorso, ritornava  all’Episcopio per ringraziare la Vergine e poi si concludeva in città.

Queste le notizie che la signora Marini Ceraldi ci fornisce. Esse mi hanno colpito per due motivi: 
1) per le informazioni storiche che francamente non conoscevo e che mi hanno molto affascinato; 
2) per il tesoro che abbiamo per le mani e che potremmo sfruttare a vantaggio della crescita di Carinola, come già fanno in altre città più famose. 
Ricostruire, oggi, una rappresentazione simile sarebbe veramente un rilancio eccezionale per Carinola, perché non solo porterebbe turismo, ma incrementerebbe anche l’economia. Nella mia ottica, la cultura paga sempre se usata con criterio, ma con intraprendenza. Purtroppo sembra che dalle nostre parti, non si afferri questo concetto.

Senza polemiche, spero che si cominci a considerare seriamente le occasioni che la storia ci regala e a sfruttarle al meglio per il rilancio del territorio. Intanto, mi sento di ringraziare a nome di tutto il popolo carinolese la signora Adele Marini Ceraldi per tutto quello che ha fatto e che continua a fare nonostante l’età, e le rinnovo il mio personale rispetto e la mia stima.

Dal testo monografico : La Basilica di S. Maria in Foro Claudio - di Adele Marini Ceraldi - Marina di Minturno, 1990

sabato 9 giugno 2012

Riccardo, un conte molto irrequieto -parte II

Da Wikipedia: panorama di Pico, ora provincia di Frosinone

L’altro episodio che riguarda Riccardo di Carinola e di cui siamo a conoscenza non fa molto onore all’uomo, ma il suo comportamento va, al solito, inquadrato nell’ambito della concezione medioevale che sacrifica ogni cosa al potere. Nella vicenda di cui vado ad occuparmi, Riccardo fa un po’ la figura dello sprovveduto e si lascia raggirare ed usare da chi è più furbo di lui, senza valutare a pieno le conseguenze delle sue decisioni. Almeno così sembrerebbe. 
I protagonisti principali della vicenda sono quattro: due Riccardo, l’uno signore di Carinola e l’altro di Pico, figlio di Raone Pigardi, il Papa Callisto e Oderisio, abate di Montecassino. In essa giganteggia soprattutto la figura di Oderisio che poco aveva di spirituale e molto di guerriero.  Oderisio eccelleva nell’arte della guerra più che nelle lettere e  si comportava di conseguenza. 
Non avendo remore a prendere la spada e mettersi personalmente al comando di un esercito, Oderisio si difendeva da solo la Terra Sancti Benedicti e da solo se la gestiva, più come un conte che come un abate.

Nel 1123  Riccardo  Pigardi, signore di Pico, convinse Riccardo di Carinola a reggergli il gioco in una vendetta privata contro Leone, conte di Fondi. Riccardo di Pico invitò Leone ad un banchetto e, mentre si banchettava, Leone venne ucciso a tradimento. L’azione non piacque a papa Callisto che chiese a Oderisio un punizione esemplare per i due Riccardo. 
Oderisio non se lo fece dire due volte e,  vedendone un vantaggio, accettò con piacere, anche perché ad uno dei suoi monaci, che era andato verso Fondi per un’incombenza, era stato impedito di passare in quel di Pico e oltraggiato. 
Oderisio, con l’aiuto di Ottaviano, fratello dell’ucciso Leone, attaccò Pico che in breve cadde nelle sue mani. Il papa contento di questa vittoria, investì Oderisio nuovo signore di Pico.

A questo punto Riccardo di Carinola, realizzando finalmente con chi aveva a che fare, cominciò a temere seriamente per la sua contea e pensò che la miglior difesa era l’attacco. Corse a chiedere aiuto a suo cugino Giordano II, principe di Capua, che si offrì di aiutarlo e gli concesse molti soldati con cui poté attuare il suo piano: devastare le terre dell’abbazia e riprendersi Pico. Ma Oderisio si asserragliò a Bantra (Rocca d’Evandro) e non lasciò passare i capuani. Il papa minacciò Giordano di scomunica se non avesse desistito dalla sua intenzione di combattere contro l’abate, ma Giordano accettò solo dietro il pagamento di 300 libbre di oro e la donazione di Pico con il  suo territorio. 

Riccardo di Carinola non rimase soddisfatto del risultato: i vantaggi erano andati tutti a suo cugino Giordano e non a lui, come aveva sperato. Non digerì il rospo e attese di vendicarsi di Oderisio.

Questo è quanto ci racconta Pietro Diacono che, come gli studiosi ben sanno, non è sempre veritiero né preciso. Infatti, da un diploma di Giordano II a favore dell’abbazia di Montecassino  e datato 1125 si deduce chiaramente che il principe non solo non approvò l’operato di suo cugino, ma punì severamente Riccardo Pigardi, togliendogli molti beni che cadevano in territorio capuano e concedendoli all’abbazia. Ecco quello che scrive Giordano: "cum munitione, et turri, et universis pertinentiis ejus, sicut Richardus filius Raonis Pigardi illud tenuit, et dominatus est quindecem dies antequam Leo Fundandanus ubi caperetur; qui vide licet Richardus nepharia, et flagitiosa predizione, qua fecit, de Leone de Fundis, ita Foristerit, ut tam ipse, quam sua omnia in nostra potestate jura perveniret, nam cum esset cum eo in securitate per Sacramentum, compater quoque ejus, et amicus fuisset post datum ei prandium in domo sua hostiliter Tirannorum more comprendit tam ipsum, quam Petrus filius ei, et Marinum de Etro et nomine eorum".  
Giordano, inoltre, andò personalmente a Montecassino e giurò solennemente di difendere sempre tutti i beni dell’abbazia.

Riccardo di Carinola, a quanto pare, non si fermò neppure per tema di suo cugino e volle vendicarsi a tutti i costi di Oderisio. 
Per sfortuna di Oderisio, nel 1124 morì papa Callisto e fu consacrato papa Lamberto Scannabecchi che assunse il nome di Onorio II. Tra i due non si creò  simpatia né legame di reciproco vantaggio.  Oderisio si rifiutò di aiutare papa Onorio quando questi chiese aiuto perché “la navicella di San Pietro versava in cattive acque e bisognava soccorrerla con denaro”. Chi aiutava sarebbe stato considerato “figlio”, chi rifiutava sarebbe stato considerato “figliastro”. 
Oderisio rispose subito che siccome lui non era stato invitato alla sua elezione a Papa e non aveva partecipato alla sua gioia, ora non voleva partecipare neanche alla sua tribolazione e rifiutò il denaro. 
Cominciò così una tenace lotta tra il papa e l’abate Oderiso che impegnò le forze di entrambi. Della situazione approfittò Riccardo che si gettò con un esercito nelle terre dell’abbazia, le devastò e si impossessò di Suio.

Alcuni tesrti consultati
Ciuffi Gaetano – Memorie istoriche ed archeologiche della città di Traetto – Na, 1854
Di Meo Alessandro – Annali critico diplomatici del Regno di Napoli – vol. 9. Napoli, 1804
Federici G.B. – Degli antichi duchi e consoli o ipati della città di Gaeta – Napoli, 1791
Ferrari Angelo – Feudi prenormanni dei Borrello tra Abruzzo e Molise – Trento, 2007
Gattola Girolamo – Ragionamento storico genealogico – Napoli, 1798
Gesualdo Erasmo - Osservazioni critiche sopra la storia della via Appia – Napoli, 1754
Pietro Diacono - Chronica Monasterii Casinensis IV.54, MGH SS VII, p. 788, in Cawley’s Foundation for Medieval Genealogy.
Rinaldo Ottavio – Memorie istoriche della fedelissima città di Capua -  Napoli, 1755
Tosti Luigi – Storia della Badia di Monte Cassino – Napoli, 1842

martedì 5 giugno 2012

Riccardo, un conte molto irrequieto – parte I


Arazzo di Bayeaux - Scena di guerra

Di conti di nome Riccardo, Carinola ne ha avuto diversi. Il nome si ripeteva di padre in figlio o di nonno in nipote, come è ancora nostra usanza, per attestare la provenienza da quel Riccardo Drengot che fu conte di Aversa e primo principe normanno di Capua. Tuttavia, di un solo Riccardo conosciamo le gesta, raccontate nelle cronache del tempo da Pietro Diacono e riprese da altri storici nei secoli successivi. Il Riccardo di cui conosciamo qualche impresa era figlio di Bartolomeo che a sua volta era figlio di Riccardo I Drengot e fratello di Giordano I,  che successe al padre come Principe di Capua.
Le gesta di Riccardo di Carinola vanno chiaramente inquadrate nell’ambito del suo tempo, dove la lotta per qualsiasi tipo di potere dominava su tutto. Non c’è da stupirsi se, accanto ad un forte sentimento religioso, convivevano prepotenza, inganno, brutalità e menzogna:  sentimenti principali che animavano le azioni degli uomini medievali.

Riccardo si trovò in lotta per il controllo del Ducato di Gaeta con Rangarda (Arengarda), vedova di Riccardo di Aquila, conte di Sessa e di Fondi, che era stato Duca di Gaeta dal 1104 fino al 1111, anno della sua morte. A Riccardo di Aquila successe il figlio primogenito Andrea, che però ebbe vita molto breve. Probabilmente morì o fu scacciato dai gaetani stessi nel 1112 perché, nel 1113 troviamo come duca di Gaeta, Gionata, della famiglia dei principi di Capua e nipote di Riccardo di Carinola.

Come avevano fatto i principi capuani ad inserirsi improvvisamente nella linea ereditaria della famiglia di Aquila al comando del Ducato di Gaeta?  In realtà la cosa non fu tanto improvvisa e per avere chiara la situazione bisogna fare qualche passo indietro nel tempo….

Antefatto
Nel 1062 era morto il duca di Gaeta Adenolfo I e i gaetani elessero loro duca Adenolfo II, figlio del primo, non curandosi della potenza dei principi di Capua,  i quali aspettavano solo l’occasione giusta per impossessarsi del Ducato di Gaeta. Ma essendo Adenolfo II un bambino di pochi anni, la reggenza del Ducato passò alla madre Maria
Grazie alla diplomazia dell’abate di Montecassino, Desiderio, Maria fu riconosciuta come reggente anche dai principi capuani. Nel 1063 Maria morì ed i principi capuani si inserirono nel Ducato di Gaeta con Giordano I, principe di Capua, come reggente e governante. Ma, guarda caso, nel 1064 morì anche il piccolo Adenolfo II e il popolo, che non voleva a nessun costo sottomettersi ai capuani, contro la volontà dei principi di Capua elesse quale Duca di Gaeta Landone, conte di Traetto. Ma Landone, con quei nemici, non ebbe vita facile e fu costretto a cedere alle loro prepotenze e a rifugiarsi a Roma. 
I Capuani riuscirono ad inserire la dinastia normanna a Gaeta dal 1065 con il duca Loffredo, confidente di Giordano I, fino al 1104 con il duca Guglielmo di Blosseville, che Riccardo di Aquila riuscì a scacciare dal Ducato per impossessarsene.

Questo l’antefatto. Morto Riccardo di Aquila prima e suo figlio Andrea poi, i Capuani tornarono all’attacco per riprendersi quello che avevano perduto in un momento di debolezza. E  come Duca di Gaeta fu posto Gionata, già conte di Carinola. Ma Rangarda non era disposta a perdere l’importantissimo Ducato di Gaeta che voleva passare ad un altro suo figlio. Nel frattempo, ella si era risposata con Alessandro di Carinola (ma il de Blasiis dice di Sessa) che teneva Suio, tolto a Montecassino ai tempi di Desiderio. Gli scontenti abitanti di Suio, pressati dalle prepotenze di Alessandro e Rangarda, incitarono l’abate di Montecassino a catturare Alessandro e riprendersi Suio. Cosa che puntualmente avvenne. 

Imprigionato Alessandro e persa Suio,  Rangarda  rivolse le sue attenzioni al Ducato di Gaeta e cominciò a dare molto fastidio al duca Gionata, occupando la Turris ad Mare sul Garigliano
In aiuto del nipote giunse Riccardo di Carinola, che con un’armata non grande ma molto decisa, sconfisse i due bellicosi pretendenti al Ducato di Gaeta. Gionata morì nel 1120, non sappiamo se per cause naturali o per azione bellica. 
Nel 1121 o nel 1122,  Riccardo di Carinola, zio di Gionata,  fu nominato Duca di Gaeta come Riccardo II. Diversi studiosi, come il Federici e il Tosti, mettono in dubbio che Riccardo Duca di Gaeta  e Riccardo di Carinola, figlio di Bartolomeo, siano la stessa persona, perché Pietro Diacono, pur parlando  di lui nella sua cronaca, non lo cita mai col titolo di Duca di Gaeta. 
Be’, tante cose non dice Pietro Diacono e tante cose le dice sbagliate; questa non è una novità per gli studiosi. 

In mancanza di un documento chiaro, ci si può affidare solo a speculazioni logiche. Molto logiche. Da dove salterebbe fuori questo improbabile altro Riccardo?  Possiamo davvero pensare che Riccardo di Carinola, dopo aver combattuto al fianco di suo nipote Gionata per la difesa del Ducato, se lo sarebbe fatto soffiare da un pinco pallino qualsiasi, e per giunta col suo stesso nome? E possiamo pensare che fosse corso in aiuto di Gionata per semplice filantropia familiare? Mi sembra una storia molto insensata, che fa acqua da tutte le parti: l’uomo era di ben altra tempra.  E’ invece molto più logico pensare che Riccardo di Carinola, alla morte del nipote, sia stato eletto Duca di Gaeta, malgrado Pietro Diacono!
La prova viene infatti trovata in un Diploma spedito dallo stesso Duca Riccardo II per le monete dei Follari e viene intitolato così: Riccardus divina previdente clementia Consul et Dux prefate Civitatis; olim domni Bartolomei proles Capuan Princ. et Calinensis Comitis pie recordationis fiulius come ci riporta  il Federici.

Sotto Riccardo ebbe termine il Ducato di Gaeta. 
Re Ruggiero si impadronì del Principato capuano, ne fece principe Anfuso, suo terzogenito, e vi unì il Ducato di Gaeta, ormai considerato a tutti gli effetti parte del Principato di Capua.
 c.d.l.


 
Alcuni testi consultati

Bloc Herbert - Monte Cassino in the Middle Ages - Library of Congress -1986
Ciuffi Gaetano – Memorie istoriche ed archeologiche della cuttà di Traetto – Na, 1854
Di Meo Alessandro – Annali critico diplomatici del Regno di Napoli – vol. 9. Napoli, 1804
Federici G.B. – Degli antichi duchi e consoli o ipati della città di Gaeta – Napoli, 1791
Gattola Girolamo – Ragionamento storico genealogico – Napoli, 1798
Gesualdo Erasmo - Osservazioni critiche sopra la storia della via Appia – Napoli, 1754
Pietro Diacono - Chronica Monasterii Casinensis IV.54, MGH SS VII, p. 788, in Cawley’s Foundation for Medieval Genealogy.
Rinaldo Ottavio – Memorie istoriche della fedelissima città di Capua -  Napoli, 1755
Tosti Luigi – Storia della Badia di Monte Cassino – Napoli, 1842