martedì 27 dicembre 2011

La peste nera in Europa nel VI-VII secolo.


In quel tempo scoppiò una grave pestilenza, che ebbe nella provincia della Liguria il suo epicentro. All’improvviso apparivano sulle pareti di casa, sulle porte, sui vasi e sulle vesti delle macchie, che, più si cercava di lavare, più si facevano persistenti. Dopo un anno che si era manifestato questo fenomeno, la gente incominciò a soffrire per ghiandole che, grosse come una noce o come un dattero, si erano formate all’inguine o in parti ancora più delicate; seguiva un gran febbrone, che in tre giorni portava alla morte quanti ne erano colpiti. Se invece si superavano i tre giorni si aveva la speranza di scampare alla morte. 
Ovunque si andasse, erano visibili i segni del lutto e si udivano pianti. E poiché si era creata nella gente la persuasione che si potesse sfuggire a tanto malanno solo allontanandosi dai luoghi abitati, le case erano deserte dei loro abitanti e servivano solo ai cani. Sui pascoli le bestie vagavano incustodite perché tutti i pastori erano fuggiti. E dove ancora il giorno prima potevi vedere villaggi e borgate piene del tramestio della gente che andava e veniva, il giorno dopo, essendo tutti fuggiti, dappertutto regnava un silenzio di tomba. 
I figli fuggivano lasciando insepolti i cadaveri dei propri genitori e questi,  a loro volta, dimentichi della pietà dovuta ai frutti delle loro viscere, li abbandonavano in preda alla febbre. Se qualcuno sentiva ancora il richiamo dell’antica pietà e si fermava a seppellire i morti, rimaneva egli stesso insepolto e proprio mentre cercava di rendere agli altri le estreme onoranze, ne rimaneva privato lui stesso.
Ti sarebbe sembrato di vedere il mondo ritornato ad epoche remote, quando ovunque era silenzio; non una voce si alzava dalle campagne, nessun richiamo di pastori, nessun assalto di animali feroci di greggi, nessun furto di animali domestici. I raccolti, passato ormai il tempo della mietitura, aspettavano intatti la falce  del mietitore; le vigne, perdute ormai le foglie per l’avvicinarsi dell’inverno, offrivano sui rami spogli i grappoli splendenti. In qualsiasi ora della notte risuonava la tromba di guerra e molti sentivano i passi di eserciti simili al fragore del mare. Ma sulle strade non c’erano orme di passanti, né assassini in agguato; eppure vi erano tanti cadaveri che l’occhio dell’uomo neppure poteva vederli tutti. Gli antri usati dai pastori erano diventati luoghi di sepoltura per gli uomini e le abitazioni della gente servivano di rifugio alle fiere. Ma queste calamità si abbatterono solo sull’Italia  e sui Romani fino ai confini delle terre abitate dagli Alemanni e dai Bavari. Durante questi avvenimenti era morto l’imperatore Giustiniano ed il reggimento della cosa pubblica era passato nelle mani di Giustino il Giovane.


Da: Gabriele De Rosa: Età Medievale - brano di Paolo Diacono – Storia dei Longobardi – Rizzoli, Milano 1967

domenica 25 dicembre 2011

La lunga marcia del popolo longobardo – premessa

Ravenna - Chiesa di S. Vitale - Giustiniano e la sua corte

Il popolo longobardo merita un’attenzione particolare, essendo stato quello che ha fondato Carinola, almeno amministrativamente, dandoci anche  un primitivo stemma sul modello di quello di Capua.   

*****
Nel VI secolo, l’impero bizantino andava a poco a poco disfacendosi per  le continue  invasioni di altri popoli che premevano ai suoi confini, in Britannia come in Africa e Medio Oriente. L’enorme territorio dell’impero romano era ridotto a piccole entità politiche che gli storici chiamano regni romani barbarici o latino germanici. Latini perché l’amministrazione si mantenne romana ovunque, tranne che in Britannia; barbarici perché gli eserciti erano ormai al comando di guerrieri germanici e i nuovi arrivati mantennero i loro usi e costumi.
Con Giustiniano, l’imperatore bizantino che regnò dal 527 al 565, l’impero ebbe un’inaspettata ripresa, una specie di miglioramento nell’agonia prima della definitiva morte.
Dopo gli Unni di Attila, i Visigoti di Alarico  e i Vandali di Genserico che, nel V secolo, avevano  saccheggiato la penisola più in largo che in lungo, penetrando sempre più a sud,  l’Italia  era ora sotto la morsa degli Ostrogoti, guidati da Teodorico. Questa tribù germanica aveva sconfitto Odoacre, il generale degli Eruli  anch’egli germanico, che si era proclamato  re d’Italia (primo re barbaro) dopo aver deposto Romolo Augustolo, ultimo imperatore d’Occidente.
Odoacre non era stato nemico dell’impero e non aveva voluto dichiararsi imperatore d’Occidente come sarebbe stato prevedibile; anzi aveva riconsegnato, all’imperatore d’Oriente del tempo, Zenone, le insegne d’Occidente, riconoscendogli la sovranità su tutto l’impero.
Con gli Ostrogoti il discorso era diverso. Veri conquistatori, anch’essi stabilirono in Italia un regno romano-germanico, di cui Teodorico fu il secondo re barbaro,  e divisero la penisola italiana in 17 province fiscali.  Ma Giustiniano,  pur riconoscendo, per forza di cose, il ruolo dei re barbari, aveva un grande sogno: quello di ripristinare gli antichi confini dell’impero e riportare l’Italia direttamente sotto l’egida bizantina. 
Il sogno di Giustiniano fu in parte realizzato grazie alle guerre greco-gotiche  (o goto-bizantine) condotte dal suo intraprendente generale Belisario e  che costarono  cifre esorbitanti ai malcontenti cittadini dell’impero. Inoltre, riuscì a sconfiggere definitivamente gli Ostrogoti e a riportare l’Italia nell’orbita di Bisanzio. 

Sotto Giustiniano,  l’impero raggiunse un periodo di splendore pari a quello del passato, ma qualcosa di inatteso segnò la fine di tale splendore: la peste
La peste, cosiddetta di Giustiniano, fu un’epidemia di inaudita violenza che spopolò le campagne,  dimezzò le popolazioni,  ridusse gli eserciti, portando morte e desolazione in tutta Europa.
Molti storiografi pensano che fu proprio la peste a spianare la via all’invasione dei Longobardi che trovarono così, nelle città e nelle campagne spopolate, pochissima opposizione.
Detto in questo modo, ci si fa l’idea che i Longobardi fossero una delle tante tribù barbare assetate di conquista, che aspettava solo l'occasione buona per attaccare l’Italia con feroci spedizioni militari. E forse per un verso lo erano.
In realtà le cose non andarono proprio così e, per rendere giustizia alla storia, bisogna partire da lontano. Da molto lontano.
c.d.l.



Alcuni testi consultati

AA.VV. - Longobardia e longobardi nell’Italia meridionale – Università C,del Sacro Cuore-  Milano, 1996
De Rosa Gabriele – Età medievale – Ed Minerva Italica – Bergamo, 1990
Montanelli Indro – Storia d’Italia – vol. I – Milano,1987
Muratori Ludovico A. – Dissertazioni sopra le antichità italiane – Milano, 1751
Nugnes Massimo – Storia del Regno di Napoli –  Napoli, 1838
Paolo Diacono – Historia Langobardorum – gbooks
Piccinni Gabriella – I mille anni del medioevo –  Mondadori ed. - Milano, 1999
Rouche Michel – Storia dell’alto medioevo – Milano, 1993
Schiavone Aldo – La storia spezzata: Roma antica e Occidente moderno – Roma-Bari, 1996
Tamassia Giovanni – Storia del regnno dei Goti e dei Longobardi in Italia – vol. I – Bergamo, 1825
Zanetti Bernardino – Del Regno de’ Longobardi in Italia – Venezia, 1753

venerdì 23 dicembre 2011

Buon Natale

Convento San Francesco, Casanova - Presepe - del prof. Giuseppe Supino






Buon Natale e Buon Anno a tutti



venerdì 9 dicembre 2011

L' Abbazia di San Vincenzo al Volturno

Miniatura  del Chronicon Vulturnense - I tre fondatori di S. Vincenzo al Volturno

E’ il Chronicon Vulturnense del monaco Giovanni che ci fornisce le notizie di questa stupenda abbazia benedettina del meridione che, insieme a quella di Montecassino, influenzava la vita politica e sociale dell’alto medioevo. Il monaco Giovanni scrisse il Chronicon intorno al 1130 per recuperare la memoria del distrutto e poi ricostruito cenobio, basandosi su documenti più antichi non sempre autentici. 
Ci racconta che furono tre giovani beneventani longobardi, Paldo, Taso e Tato, a fondare il primitivo Cenobio. I tre, desiderosi di vita ascetica, si rivolsero all’abate dell’Abbazia di Farfa per consiglio. L’abate consigliò loro di creare un cenobio lungo le rive del Volturno, là dove già esisteva un antico oratorio dedicato a San Vincenzo di Saragozza. Così fu fatto. Le fondamenta dell’abbazia furono idealmente gettate nel 703; poi ci pensarono i duchi del ducato di Benevento, ormai cristianizzati,  ad ingrandirla, primo tra tutti Gisulfo II
Il dualismo medievale, ossia il contrasto tra la violenza e i soprusi quotidiani e la spiritualità della vita religiosa non fu certo assente in questa abbazia che, al pari di Montecassino, divenne una specie di banca medievale. I signori e signorotti del tempo, facevano seguire alle loro feroci guerre grandi donazioni a favore di chiese e monasteri. Un po’ per mettere a tacere l’anima, ma soprattutto per mettere al riparo le nuove terre da loro conquistate dall' ingordigia dei principi che quasi sempre volevano impossessarsene. 
Con le donazioni, i possedimenti non andavano affatto persi, come si potrebbe credere: nei  placiti era prevista la partecipazione  del donatore all’amministrazione del bene offerto e, in molti casi, anche alla partecipazione all’elezione di un nuovo abate. Molto spesso, in caso di forti donazioni, i signori obbligavano i loro figli a farsi monaci per meglio partecipare alla gestione dei grandi patrimoni terrieri monastici e per essere presenti alle importanti decisioni della vita politica. 
Non aveva tutti i torti lo studioso tedesco Hans Granbhof quando scriveva, riferendosi ai Franchi, che chi voleva conquistare militarmente l’Italia, doveva passare per la conquista delle istituzioni monastiche.
Cosa che effettivamente fece Carlo Magno il quale, dopo la sottomissione di Arechi di Benevento, rilasciò particolari privilegi alle più eminenti istituzioni ecclesiastiche della Longobardia Minor, tra cui l’ esenzione fiscale e giurisdizionale, e l' autorizzazione per la comunità ad eleggere il proprio abate. Il  24 marzo del 787 questi privilegi furono assegnati  S. Vincenzo al Volturno e il 28 marzo 787 a Montecassino. 
Grazie alle tantissime donazioni, San Vincenzo crebbe fino a diventare una bellissima cittadella monastica, economicamente autonoma. In essa si praticava l' apicoltura su larga scala per la produzione del miele e si effettuava la lavorazione del vetro, ma fu sotto gli abati Giosuè ed Epifanio che l'abbazia raggiunse il massimo splendore e si arricchì di nuove cappelle stupendamente affrescate, come  rivelato dagli ultimi scavi archeologici.
S. Vincenzo al Volturno era però continuamente minacciata dai sopraggiunti saraceni che, ghiotti delle sue ricchezze, cercavano in tutti i modi di appropriarsene. Più volte, per evitare il saccheggio i monaci furono costretti a pagare forti somme di denaro. Nonostante i ricatti, nel 881, un folto gruppo di saraceni attaccò il monastero e lo saccheggiò, uccidendo molti monaci e servi. Alcuni monaci superstiti riuscirono a fuggire e si rifugiarono a Capua. Solo dopo molti anni ritornarono sul luogo per ricostruire il perduto Cenobio, ma l’antica grandezza di San Vincenzo al Volturno era per sempre perduta. 
Tra i possedimenti di S. Vincenzo al Volturno nel carinolese, oltre al già menzionato Cenobio di San Martino, erano: il Monasterium Sancte Crucis, sul Massico;  S. Maria a Boccadoro o anche detta S. Maria de Fauzano, prima chiesa di Falciano del Massico, abbandonata intorno al 1640; la chiesa monasteriale di Sancti Ylarii, attestata dall’anno 944 fino al 1104, dopo di cui non se ne hanno più notizie; infine, in territorio di Mondragone, il monastero di S. Anna de aquis vivis, appartenente alla soppressa diocesi di Carinola, di cui parleremo più avanti.

                                                                                                                c.d.l. 
Alcuni testi consultati

AA.VV. - Annali civili del Regno delle Due Sicilie – vol. I-3,  Napoli, 1833
Diacono Paolo – Historia Langobardorum – gbooks
Erchemperto – Historia Langobardorum Beneventanorum - gbooks
Federici V. (a cura di) Chronicon Vulturmense del monaco Giovanni  - I, II, III – gbooks
Houben Hubert – Potere politico e istituzioni monastiche nella Longobardia Minor – in AA.VV. - Longobardia e longobardi nell’Italia meridionale – Centro di Cultura dell’Università Cattolica del Sacro Cuore –Milano, 1996
Leone Marsicano (a cura di F.Aceto e V. Lucherini) – Cronaca di Montecassino – gbooks
Marazzi Federico – L’Abbazia di S. Vincenzo al Volturno e i rapporti con le sue proprietà fra VIII e X secolo - in AA.VV. - Longobardia e longobardi nell’Italia meridionale – Centro di Cultura dell’Università Cattolica del Sacro Cuore –Milano, 1996
Morghen R. – La riforma monastica nei secoli X-XII – Roma- Bari, 1973
Vitolo G. – Caratteri del monachesimo nel Mezzogiorno altomedievale – Salerno, 1984
Zannini Ugo – Paesaggio, storia, archeologia ed arte nella Campania Settentrionale -  (fascicolo)

mercoledì 7 dicembre 2011

Il Cenobio di San Martino al Massico

La rustica scaletta che porta alla grotta di S. Martino - foto di Salvatore Bertolino

* Aggiornato il 22 ottobre 2019.
La presenza di Martino richiamò sul monte Massico diversi uomini che, affascinati dalla santità dell’uomo, vollero diventare suoi discepoli e condividere la sua esperienza. 
Martino non li respinse, ma non abbandonò la sua grotta e la sua condizione di eremita. Forse fu in questo periodo del VI secolo che cominciò a sorgere il Cenobio, la più antica presenza  benedettina sul territorio, e che inglobò tra le sue mura perimetrali anche la grotta.
Amedeo Maiuri, archeologo frusinate, nel suo libro Passeggiate campane, parla di ruderi romani, forse un tempio ad Apollo, già presenti sul posto, con torre di avvistamento. Non abbiamo la facoltà di confutare la tesi del Maiuri, ma se pensiamo alla posizione strategica in cui sorge il Cenobio e che domina tutto il golfo di Gaeta, la sua affermazione potrebbe essere degna di fede. 

La prima testimonianza  della presenza del Cenobio sul Massico la troviamo nel Chronicon Vulturnense del monaco Giovanni, cronista dell’abbazia benedettina di San Vincenzo al Volturno che, nel periodo che va dal 703 al 729, registra la concessione di Romualdo II, duca di Benevento,  al monastero:  il possesso del Monte Massico. 
Sempre dal Chronicon Vulturnese, periodo dal 742 al 750, veniamo a sapere che il monastero era retto dall’abate Albino. il Monastero continuò ad ingrandirsi  grazie a donazioni di  privati  e dei duchi longobardi, tra cui Arechi II  che, intanto, aveva elevato il Ducato di Benevento a Principato e fregiato se stesso del titolo di principe.  
Era  principe di Benevento Sicardo quando il Monastero passò sotto l’amministrazione di San Vincenzo al Volturno, nel periodo che va dal 832 all' 839.
Finché i Longobardi furono al potere, il monastero continuò ad esistere e ad ingrandirsi grazie alla considerazione che questi principi ebbero verso tutti i monasteri benedettini, ma i Franchi premevano prepotentemente alle porte e con il declino del Principato di Benevento cominciò il declino anche per i Longobardi.
Alle ragioni politiche che provocarono la fine del monastero ne va unita un’altra, non meno disastrosa: gli attacchi dei Saraceni.

I Saraceni furono chiamati  nella parte continentale d'Italia dagli stessi duchi longobardi, per avere un aiuto nelle loro guerre intestine.  Furono assoldati, come dice Leone Ostiense, anche dall' ipata bizantino di Gaeta Docibile I, che aveva subito un torto da papa Giovanni VIII e contro i cui possedimenti scatenò orde di guerrieri arabi. Fatta la pace con il papa, Docibile confinò i Saraceni, una colonia di circa 40.000 individui, presso Traetto. 
Se i Saraceni furono di un qualche aiuto per gli immediati scopi dei duchi e principi longobardi, essi si rivelarono, in seguito, una vera piaga per le popolazioni del luogo, soprattutto per le comunità religiose. 

Completamente disorganizzati come esercito e come società civile, i Saraceni vivevano di razzie e saccheggi per sfamare quell'orda di persone e tutto ciò che aveva un valore li attirava come gazze. 
A pagare le spese di questa inopportuna e sgradita presenza saracena  furono non solo i semplici cittadini, ma soprattutto abazie e monasteri sempre provvisti di scorte alimentari, come l'Abazia di Montecassino,   quella di San Vincenzo al Volturno, il Cenobio di San Martino e il Monastero della Santa Croce, entrambi sul Monte Massico e  sicuramente non abbastanza ben difesi. 
Sugli attacchi dei Saraceni al Cenobio, esiste un curioso opuscoletto di 4 pagine allegato al manoscritto n° XXII della Biblioteca Vallicelliana di Roma, scritto verso la fine dell’XI secolo. L’opuscoletto fu scritto da un  diacono di Monte Massico, Adelberto, come attesta l’ultima frase del documento: Hoc autem conscripsit Adelebertus diaconus et monachus prephati monasterii, qui prope erant ad videndum victoria sancti Martini[…].
Mettendo da parte  qualsiasi dibattito su questo documento che merita uno studio a parte,  esso ci da un esempio di quella storiografia popolare che dominava il medioevo. Il diacono ci racconta che, di fronte all’ennesimo assalto dei Saraceni al monastero, i monaci scesero nella grotta e, davanti alla tomba del santo, ne invocarono l’aiuto per essere liberati da quella minaccia. Al clamore che facevano i monaci, subito apparve il corpo di Martino, in carne ed ossa,  e con voce forte e chiara disse: Ascoltatemi, fratelli miei e servi del mio signore Gesù Cristo, perché  io sono Martino, che giaccio in questa grotta, la cui lode ogni giorno frequentate.[…] Andate, e armate i vostri corpi con corazze, elmi, scudi, lance e spade; salite sui cavalli e senza paura combattete, perché io vi precedo nel vedere, e si dispone per voi una grande vittoria.*
La bella storia raccontata da Adelberto serviva chiaramente solo a dare lustro al monastero.  La struttura è comunque rimasta attiva fino al 1690. Infatti nell'Apprezzo dell'Università Baronale di Carinola si afferma che "da sopra detto casale (Casanova) in una collina vi sta  il convento antico di S. Martino, dove al presente vi sta un romito".

                                                                                                   c.d.l.

*Audite me, fratres mei et servi domini mei Iesu Christi, videte quia ego sum Martinus, qui hunc specu adiaceo, cuius laudem quotidiae frequentatis […]. Ite, et armate corpora vestra loricis, galeis, clipeis, hensis et lanceis; equos ascendite et sine dubio pugnate, quia ego antecedo vobis videntes, et copiosam habetis victoriam.

Alcuni testi consultati

Bossi Luigi – Della istoria d’Italia antica e moderna – vol. XIII – Milano, 1821
Cariello Nicola – I saraceni nel Lazio – VIII-X secolo -  Roma, 2001
Federici Giovanno B. (monaco casinese) – Degli antichi duchi e consoli o ipati della città di Gaeta – Napoli, 1791
Federici V. (a cura di) Chronicon Vulturmense del monaco Giovanni  - I, II, III – google books
Gesualdo Erasmo – Osservazioni critiche – Napoli, 1754
Gregorio Magno ( a cura di Simonetti e Pricoco) – Dialoghi –   vol. II, libri III e IV, Milano, 2006
Hugh Moretus – un opuscule du diacre Adelbert – google books
Leone Marsicano - cronaca di Montecassino - google books
Monetti Diego – Cenni storici dell’antica città di Gaeta – Gaeta, 1869
Muratori Ludovico A. - Annali d’Italia – vol. VII – Milano, 1753
Nugnes Massimo -  Storia del Regno di Napoli -  vol. I - Napoli, 1840
Valente Corrado - L'Università Baronale di Carinola  nell'Apprezzo dei Beni anno 1690, Marina di Minturno 2008
Zannini Ugo e Guadagno Giuseppe – S. Martino e S. Bernardo – Minturno, 1997