domenica 12 maggio 2013

Breve panoramica del periodo angioino - la sorte di Carinola



 
Inconarazione di Carlo I d'Angiò per mano di Papa Clemente IV -  Ginevra, galleria universitaria

* aggiornato il 12. 12.2015
Con Carlo I d’Angiò si insediò nel Regno di Sicilia la dinastia angioina e Napoli diventò la capitale del regno.   A Carlo, per motivi logistici, fece comodo spostare il centro del potere da Palermo a Napoli perché da Napoli gli era molto più facile spostarsi là dove lo portavano le numerose cariche di cui era stato investito. Oltre ad essere il nuovo re del Regno di Sicilia, egli era infatti anche Signore della Provenza e dell’Angiò, Senatore di Roma e Vicario Imperiale in Toscana designato dal Papa Clemente IV. Aveva inoltre delle signorie anche in Piemonte e Lombardia. 
Questa nuova posizione occupata da Napoli, portò la città ad un’importanza economica e marittima sempre maggiore e il re si preoccupò di ingrandirla e migliorarla per la sua funzione di capitale.

Ma Carlo non si occupò solo di Napoli, ma dell’intero sistema governativo che modificò a suo vantaggio. Venne a scomparire la feudalità sveva perché il re confiscò i feudi appartenuti ai vecchi baroni per assegnarli ai numerosi suoi militi che avevano partecipato alla conquista del Regno. Carlo dispensò titoli, feudi e signorie tra i suoi con larghezza, assegnando ai suoi fedelissimi i posti più strategici.

La Terra di Carinola, la Rocca di Mondragone e la Città di Calvi fu concessa al milite Goffredo de Joinville, che insieme al padre e i fratelli aveva seguito Carlo nella conquista del regno di Sicilia. A Goffredo furono così assicurate 400 once di rendita sui fiscali di Carinola e Mondragone che, alla sua morte,  passarono a suo figlio Goffreduccio (Goffredo II). Ma mentre questi si trovava fuori del Regno al seguito di Carlo II d'Angiò, questi feudi gli furono tolti da Roberto, Conte d'Artois, nipote di Carlo I d'Angiò e cugino di Carlo II. Goffreduccio fece allora ricorso e, in cambio di Calvi, Carinola e Mondragone, ottenne la città di Alife.

Furono mantenute le 12 province ed in ognuna delle quali un funzionario, il Giustiziere,  rappresentava l’autorità regia. 

Il maggior organo governativo era la Magna Curia composta come segue:
Il Gran Connestabile; era il primo dignitario del Regno, comandante supremo dell’esercito e supremo amministratore della giustizia.

Il Gran Siniscalco; Soprintendente della Casa Reale, amministrava i beni della Corona ed era direttamente responsabile verso il re.

Il Gran Giustiziere; era il capo dell’amministrazione civile e giudiziaria e a lui erano sottoposti tutti i giustizieri delle province.

Il Grande Ammiraglio; era il capo delle forze navali.

Il Gran Camerario; soprintendeva all’amministrazione finanziaria della corte e si occupava della persona e della camera del re.

Il Gran Cancelliere; era il segretario del re e aveva il compito di rivedere e sigillare tutti gli atti dell’autorità regia, badava alla direzione degli studi ed aveva diritto di giurisdizione sul clero.

Il Logoteta; era il Segretario di Stato, redigeva gli atti regi, riceveva ambasciatori, feudatari e principi a nome del re.

Il Protonotario; era un altro Segretario di Stato che redigeva gli atti regi, compilava leggi e aveva alta giurisdizione su tutti i notari del Regno.


Sotto gli angioini il popolo si divise in “popolo grasso” o mediano, a cui appartenevano tutte le professioni più nobili, ed artigiani che, man mano, si raggrupparono in corporazioni di arti e mestieri un cui notevole esempio si trova anche nella nostra Basilica di Foro Claudio
Ma la nuova dinastia ebbe mano pesante con i sudditi e aggravò il fiscalismo, istituendo un’imposta ordinaria annuale di 692 once d’oro, chiamata “collecta”, la quale gravava soprattutto sul popolo perché non era ripartita equamente. I nobili pagavano 72, i mediani 170 e il popolo 450. La collecta ordinaria veniva riscossa sei volte all’anno e da essa Carlo ne esentò i feudatari, gli ecclesiastici e i Provenzali.  Da questa tassazione ordinaria vanno distinte le collette straordinarie, volontarie o donativi  che il sovrano faceva votare di volta in volta. 
Alla colletta ordinaria andavano aggiunte le gabelle sul pane, la farina, il sale, il vino, i cavalli, il pesce, il bestiame, la vendemmia e tanti altri prodotti. C’era inoltre il Diritto Doganale su tutte le vettovaglie che entravano in città, una specie di pedaggio chiamato “quartatico”

Questo oneroso sistema fiscale contribuì molto a far ritenere Carlo d’Angiò un vero oppressore con cui il popolo non si identificava, a differenza dei sovrani svevi considerati invece parte del popolo regnicolo perché nati in Italia e perché molto più moderati fiscalmente.   
Oltre al pesante fiscalismo, anche l’arroganza francese fu senz’altro la causa della rivolta del Vespro a Palermo, meglio conosciuta come Vespri Siciliani, che diede inizio ad una guerra durata vent’anni; essa si diffuse a tutta l’isola e diventò una guerra dinastica. I nobili siciliani presero in mano le redini della rivolta e sostennero la separazione della Sicilia dal resto del Regno, offrendo la corona di Sicilia a Pietro III d’Aragona e marito di Costanza, primogenita di Manfredi.

La guerra tra gli Angioini ed Aragonesi durò a lungo e solo nel 1302, a Caltabellotta, fu raggiunta la pace secondo questi termini: gli angioini cedevano temporaneamente la Sicilia a Federico d’Aragona, figlio di Pietro III che nel frattempo era morto, il quale assunse il titolo di Re di Trinacria, mentre Carlo II d’Angiò, figlio di Carlo I, continuava a portare il titolo di re di Sicilia. Il possesso dell’isola non era trasmissibile perciò, alla morte di Federico, la Sicilia sarebbe ritornata agli Angioini. 

In realtà i patti non furono rispettati perché, 35 anni dopo, alla morte di Federico, gli Aragonesi non vollero restituire la Sicilia, anzi ripudiarono il titolo di re di Trinacria e assunsero quello di re di Sicilia, in concorrenza con gli Angioini. Il Regno fu letteralmente diviso in due e per distinguerne le due parti  si disse “Regno di Sicilia di qua dal faro” (faro di Messina) la parte continentale in mano agli Angioini e “Regno di Sicilia di là dal faro”  la parte isolana in mano agli Aragonesi. Poi, a metà del 1300, si diffuse l’uso di chiamare la parte continentale “Regno di Napoli” e napoletani tutti i sudditi del continente, non solo gli abitanti di Napoli.

La dinastia angioina-durazzesca governò il Regno di Napoli fino alla metà del XV secolo, quando sul trono si installò proprio la potente dinastia nemica degli Angioini: quella degli Aragonesi.


Alcuni testi consultati

Bacco Enrico- Il Regno di Napoli diviso in dodici province – Napoli, 1609
Camera Matteo - Annali delle due Sicilie - Napoli, 1841

Capelatro Francesco- Storia del Regno di Napoli – Napoli, 1840

Di Costanzo Angelo –Istoria del Regno di Napoli – vol. II - Milano, 1805

Giannone Pietro –Storia civile del Regno di Napoli – vol. V – 1842

Mazzella Scipione – Descrittione del Regno di Napoli – Napoli, 1601

Pagano Filippo Maria – Saggio istorico sul Regno di Napoli – Napoli, 1824

Summonte Giovanni Antonio – Della istoria della città e Regno di Napoli – Napoli, 1675




domenica 5 maggio 2013

La crudeltà di Carlo d’Angiò



Castel del Monte - stampa del 1890

La Storia è uno snodarsi di avvenimenti documentabili esposti con un distacco che non lascia spazio alcuno al sentimentalismo, di qualsiasi tipo esso sia. Ma chi studia storia sa benissimo che dietro certi  avvenimenti si nascondono spesso drammi umani, conseguenti a quegli avvenimenti, che quasi mai vengono raccontati. Uno di questi drammi riguarda la vicenda di Manfredi.

Manfredi aveva solo 34 anni quando morì nella Battaglia di Benevento del 1266. Oltre ad essere il bravo guerriero che conosciamo, egli era anche marito e padre. 
Dopo la morte della sua prima moglie, Beatrice di Savoia da cui aveva avuto la figlia Costanza, aveva sposato Elena degli Angeli o Comneno, figlia del despota d’Epiro Michele II, da cui aveva avuto altri quattro figli che, alla sua morte, erano tutti piccoli: Beatrice, di circa sei anni, nata nel 1260; Enrico, di quattro anni, nato nel 1262; Federico, di tre anni, nato nel 1263; Enzo, di venti mesi, nato nel 1264.

Carlo d’Angiò, senza alcuna compassione, li fece  imprigionare e nascondere agli occhi del mondo. Della sorte  dei quattro figli di Manfredi, avuti dal suo secondo matrimonio, nessun cronista del tempo sapeva nulla,  neanche Dante, che altrimenti ne avrebbe parlato nel Terzo canto  del Purgatorio.  Invece Dante cita solo Costanza, scrivendo:


Vadi a mia bella figlia, genitrice

de l’onor di Cicilia e d’Aragona,

e dichi il vero a lei s’altro si dice

 ……………………………

Vedi oggimai se tu mi puoi far lieto

revelando a la mia buona Costanza

come m’hai visto, e anco esto divieto

che qui per quei di là molto s’avanza.

(Dante– Divina Commedia, Purg. c. III, vv. 115-117/142-145)



Solo Saba Malaspina ne cita una figlia che sarebbe sopravvissuta al padre, ma non ne dice il nome.  Potrebbe essere la stessa Costanza.
 
Che cosa era dunque successo? Perché l'angioino fu così disumano con i figlioletti di Manfredi?

Era successo che, dopo la decapitazione di Corradino, i figli di Manfredi erano gli unici, legittimi eredi al trono di Sicilia e per Carlo d'Angiò rappresentavano una minaccia. Egli si preoccupò quindi di far diffondere la notizia della loro morte  per togliere definitivamente ogni speranza ai ghibellini d’Italia.   
Poteva effettivamente farli giustiziare, come aveva fatto con Corradino, ma avrebbe dovuto fare i conti con il Papa che, secondo le norme della Chiesa,  non avrebbe  potuto accettare la pena capitale  di piccole creature innocenti.

Quando giunse la notizia dell’esito della battaglia e della morte di Manfredi, Elena ed i suoi figli si trovavano nel Castello di Lucera, ben protetti dai fedelissimi Saraceni.  Tutti i baroni presenti si affrettarono a mettersi in salvo; solo pochi rimasero accanto alla regina.
Nel trambusto che seguì la ferale notizia, fu deciso di far partire subito la regina e i suoi figli per la bizantina isola di Corfù, portata in dote dalla stessa Elena, e scelta Trani come porto d’imbarco, lo stesso da cui era arrivata nel Regno come sposa di Manfredi. 
I fuggitivi vi arrivarono nel cuore della notte, ma una violenta tempesta li costrinse a rimandare la partenza. Questo increscioso imprevisto permise ai soldati di Carlo di raggiungere e prendere la regina e i bambini. 

Elena fu rinchiusa nella Rocca di Nocera, senza i suoi figli e sotto la severa custodia di un soldato provenzale di fiducia del re. 
La piccola Beatrice fu invece portata a Castel dell’Ovo, dove le venne assicurato un trattamento abbastanza decoroso e dove raggiunse i 18 anni senza sapere nulla della madre e dei fratelli. 
Nel 1282, con la rivolta dei Vespri Siciliani, fu rimessa  sul trono di Sicilia la prima figlia di Manfredi, Costanza, che aveva sposato Pietro d’Aragona, e Beatrice poté cominciare a sperare. Solo due anni dopo ella,  ormai  ventiquattrenne,  fu liberata grazie  all' azione di Ruggiero di Lauria, ammiraglio di Pietro, e poté andare in Sicilia, dove fu accolta con gioia dalla sorella Costanza e da tutto il popolo. 
Beatrice sposò poi Manfredi, figlio del marchese di Saluzzo, che del suo amato padre aveva il nome.

Sorte meno fortunata ebbero i figli maschi di Manfredi che tutti credevano morti e perciò il trono di Sicilia era andato a Costanza. Essi erano stati incarcerati nel castello di Santa Maria del Monte, dove si trovava anche Corradello, signore di Caserta e di Carinola, e solo nei registri angioni di Carlo II se ne ha notizia. 
Nel 1294 essi, ormai trentenni, furono trasferiti nei sotterranei di Castel dell’Ovo, dove tra il 1300 e il 1301 morì Enzo, il più giovane dei fratelli, accomunato nella sorte allo zio Enzo, di cui portava il nome, che morì nelle prigioni bolognesi. 
Federico riuscì invece ad evadere e a riparare in Egitto e di lui non si ebbero più notizie. 
A Castel dell’Ovo rimase il primogenito Enrico che vi morì a 56 anni, nel 1318, dopo 52 anni di carcere! 

Si consumò così, lentamente e miseramente, il dramma degli ultimi Hohenstaufen, la cui unica colpa era quella di essere gli ultimi discendenti di una illuminata casata. 
 cdl




Testi consultati:
Dallo studio di Pasquale Cafaro: I figli di Manfredi.
http://emeroteca.provincia.brindisi.it/Archivio%20Storico%20Pugliese/1953/Archivio%20Storico%20pugliese%20A.6%201953%20fasc.1-4%20articoli/I%20Figli%20di%20Manfredi.pdf