Inconarazione di Carlo I d'Angiò per mano di Papa Clemente IV - Ginevra, galleria universitaria
* aggiornato il 12. 12.2015
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Con Carlo I d’Angiò si insediò nel Regno di Sicilia la
dinastia angioina e Napoli diventò la capitale del regno. A Carlo, per motivi logistici, fece comodo spostare
il centro del potere da Palermo a Napoli perché da Napoli gli era molto
più facile spostarsi là dove lo portavano le numerose cariche di cui era stato
investito. Oltre ad essere il nuovo re del Regno di Sicilia, egli era infatti anche
Signore della Provenza e dell’Angiò, Senatore di Roma e Vicario Imperiale in
Toscana designato dal Papa Clemente IV. Aveva inoltre delle signorie anche in
Piemonte e Lombardia.
Questa nuova posizione occupata da Napoli, portò la città ad un’importanza economica e marittima sempre maggiore e il re si preoccupò di ingrandirla e migliorarla per la sua funzione di capitale.
Questa nuova posizione occupata da Napoli, portò la città ad un’importanza economica e marittima sempre maggiore e il re si preoccupò di ingrandirla e migliorarla per la sua funzione di capitale.
Ma Carlo non si occupò solo di Napoli, ma dell’intero sistema
governativo che modificò a suo vantaggio. Venne a scomparire la feudalità sveva
perché il re confiscò i feudi appartenuti ai vecchi baroni per assegnarli ai
numerosi suoi militi che avevano partecipato alla conquista del Regno. Carlo dispensò titoli, feudi e signorie tra i suoi con larghezza, assegnando ai suoi fedelissimi i posti più strategici.
La Terra di Carinola, la Rocca di Mondragone e la Città di Calvi fu concessa al milite Goffredo de Joinville, che insieme al padre e i fratelli aveva seguito Carlo nella conquista del regno di Sicilia. A Goffredo furono così assicurate 400 once di rendita sui fiscali di Carinola e Mondragone che, alla sua morte, passarono a suo figlio Goffreduccio (Goffredo II). Ma mentre questi si trovava fuori del Regno al seguito di Carlo II d'Angiò, questi feudi gli furono tolti da Roberto, Conte d'Artois, nipote di Carlo I d'Angiò e cugino di Carlo II. Goffreduccio fece allora ricorso e, in cambio di Calvi, Carinola e Mondragone, ottenne la città di Alife.
Furono mantenute le 12 province ed in ognuna delle quali un funzionario, il Giustiziere, rappresentava l’autorità regia.
La Terra di Carinola, la Rocca di Mondragone e la Città di Calvi fu concessa al milite Goffredo de Joinville, che insieme al padre e i fratelli aveva seguito Carlo nella conquista del regno di Sicilia. A Goffredo furono così assicurate 400 once di rendita sui fiscali di Carinola e Mondragone che, alla sua morte, passarono a suo figlio Goffreduccio (Goffredo II). Ma mentre questi si trovava fuori del Regno al seguito di Carlo II d'Angiò, questi feudi gli furono tolti da Roberto, Conte d'Artois, nipote di Carlo I d'Angiò e cugino di Carlo II. Goffreduccio fece allora ricorso e, in cambio di Calvi, Carinola e Mondragone, ottenne la città di Alife.
Furono mantenute le 12 province ed in ognuna delle quali un funzionario, il Giustiziere, rappresentava l’autorità regia.
Il maggior organo governativo era la Magna Curia composta come segue:
Il Gran Connestabile; era il primo dignitario del Regno, comandante
supremo dell’esercito e supremo amministratore della giustizia.
Il Gran Siniscalco; Soprintendente della Casa Reale,
amministrava i beni della Corona ed era direttamente responsabile verso il re.
Il Gran Giustiziere; era il capo dell’amministrazione civile
e giudiziaria e a lui erano sottoposti tutti i giustizieri delle province.
Il Grande Ammiraglio; era il capo delle forze navali.
Il Gran Camerario; soprintendeva all’amministrazione
finanziaria della corte e si occupava della persona e della camera del re.
Il Gran Cancelliere; era il segretario del re e aveva il
compito di rivedere e sigillare tutti gli atti dell’autorità regia, badava alla
direzione degli studi ed aveva diritto di giurisdizione sul clero.
Il Logoteta; era il Segretario di Stato, redigeva gli atti
regi, riceveva ambasciatori, feudatari e principi a nome del re.
Il Protonotario; era un altro Segretario di Stato che
redigeva gli atti regi, compilava leggi e aveva alta giurisdizione su tutti i
notari del Regno.
Sotto gli angioini il popolo si divise in “popolo grasso” o
mediano, a cui appartenevano tutte le professioni più nobili, ed artigiani che,
man mano, si raggrupparono in corporazioni di arti e mestieri un cui notevole
esempio si trova anche nella nostra Basilica di Foro Claudio.
Ma la nuova dinastia ebbe mano pesante con i sudditi e aggravò il fiscalismo, istituendo un’imposta ordinaria annuale di 692 once d’oro, chiamata “collecta”, la quale gravava soprattutto sul popolo perché non era ripartita equamente. I nobili pagavano 72, i mediani 170 e il popolo 450. La collecta ordinaria veniva riscossa sei volte all’anno e da essa Carlo ne esentò i feudatari, gli ecclesiastici e i Provenzali. Da questa tassazione ordinaria vanno distinte le collette straordinarie, volontarie o donativi che il sovrano faceva votare di volta in volta.
Alla colletta ordinaria andavano aggiunte le gabelle sul pane, la farina, il sale, il vino, i cavalli, il pesce, il bestiame, la vendemmia e tanti altri prodotti. C’era inoltre il Diritto Doganale su tutte le vettovaglie che entravano in città, una specie di pedaggio chiamato “quartatico”.
Questo oneroso sistema fiscale contribuì molto a far ritenere Carlo d’Angiò un vero oppressore con cui il popolo non si identificava, a differenza dei sovrani svevi considerati invece parte del popolo regnicolo perché nati in Italia e perché molto più moderati fiscalmente.
Oltre al pesante fiscalismo, anche l’arroganza francese fu senz’altro la causa della rivolta del Vespro a Palermo, meglio conosciuta come Vespri Siciliani, che diede inizio ad una guerra durata vent’anni; essa si diffuse a tutta l’isola e diventò una guerra dinastica. I nobili siciliani presero in mano le redini della rivolta e sostennero la separazione della Sicilia dal resto del Regno, offrendo la corona di Sicilia a Pietro III d’Aragona e marito di Costanza, primogenita di Manfredi.
Ma la nuova dinastia ebbe mano pesante con i sudditi e aggravò il fiscalismo, istituendo un’imposta ordinaria annuale di 692 once d’oro, chiamata “collecta”, la quale gravava soprattutto sul popolo perché non era ripartita equamente. I nobili pagavano 72, i mediani 170 e il popolo 450. La collecta ordinaria veniva riscossa sei volte all’anno e da essa Carlo ne esentò i feudatari, gli ecclesiastici e i Provenzali. Da questa tassazione ordinaria vanno distinte le collette straordinarie, volontarie o donativi che il sovrano faceva votare di volta in volta.
Alla colletta ordinaria andavano aggiunte le gabelle sul pane, la farina, il sale, il vino, i cavalli, il pesce, il bestiame, la vendemmia e tanti altri prodotti. C’era inoltre il Diritto Doganale su tutte le vettovaglie che entravano in città, una specie di pedaggio chiamato “quartatico”.
Questo oneroso sistema fiscale contribuì molto a far ritenere Carlo d’Angiò un vero oppressore con cui il popolo non si identificava, a differenza dei sovrani svevi considerati invece parte del popolo regnicolo perché nati in Italia e perché molto più moderati fiscalmente.
Oltre al pesante fiscalismo, anche l’arroganza francese fu senz’altro la causa della rivolta del Vespro a Palermo, meglio conosciuta come Vespri Siciliani, che diede inizio ad una guerra durata vent’anni; essa si diffuse a tutta l’isola e diventò una guerra dinastica. I nobili siciliani presero in mano le redini della rivolta e sostennero la separazione della Sicilia dal resto del Regno, offrendo la corona di Sicilia a Pietro III d’Aragona e marito di Costanza, primogenita di Manfredi.
La guerra tra gli Angioini ed Aragonesi durò a lungo e solo nel 1302, a
Caltabellotta, fu raggiunta la pace secondo questi termini: gli angioini
cedevano temporaneamente la Sicilia a Federico d’Aragona, figlio di Pietro III
che nel frattempo era morto, il quale assunse il titolo di Re di Trinacria, mentre
Carlo II d’Angiò, figlio di Carlo I, continuava a portare il titolo di re di
Sicilia. Il possesso dell’isola non era trasmissibile perciò, alla morte di
Federico, la Sicilia sarebbe ritornata agli Angioini.
In realtà i patti non furono rispettati perché, 35 anni dopo, alla morte di Federico, gli Aragonesi non vollero restituire la Sicilia, anzi ripudiarono il titolo di re di Trinacria e assunsero quello di re di Sicilia, in concorrenza con gli Angioini. Il Regno fu letteralmente diviso in due e per distinguerne le due parti si disse “Regno di Sicilia di qua dal faro” (faro di Messina) la parte continentale in mano agli Angioini e “Regno di Sicilia di là dal faro” la parte isolana in mano agli Aragonesi. Poi, a metà del 1300, si diffuse l’uso di chiamare la parte continentale “Regno di Napoli” e napoletani tutti i sudditi del continente, non solo gli abitanti di Napoli.
In realtà i patti non furono rispettati perché, 35 anni dopo, alla morte di Federico, gli Aragonesi non vollero restituire la Sicilia, anzi ripudiarono il titolo di re di Trinacria e assunsero quello di re di Sicilia, in concorrenza con gli Angioini. Il Regno fu letteralmente diviso in due e per distinguerne le due parti si disse “Regno di Sicilia di qua dal faro” (faro di Messina) la parte continentale in mano agli Angioini e “Regno di Sicilia di là dal faro” la parte isolana in mano agli Aragonesi. Poi, a metà del 1300, si diffuse l’uso di chiamare la parte continentale “Regno di Napoli” e napoletani tutti i sudditi del continente, non solo gli abitanti di Napoli.
La dinastia angioina-durazzesca
governò il Regno di Napoli fino alla metà del XV secolo, quando sul trono si
installò proprio la potente dinastia nemica degli Angioini: quella degli Aragonesi.
Alcuni testi consultati
Bacco Enrico- Il Regno di Napoli diviso
in dodici province – Napoli, 1609
Camera Matteo - Annali delle due Sicilie - Napoli, 1841
Camera Matteo - Annali delle due Sicilie - Napoli, 1841
Capelatro Francesco- Storia del Regno
di Napoli – Napoli, 1840
Di Costanzo Angelo –Istoria del Regno
di Napoli – vol. II - Milano, 1805
Giannone Pietro –Storia civile del
Regno di Napoli – vol. V – 1842
Mazzella Scipione – Descrittione del
Regno di Napoli – Napoli, 1601
Pagano Filippo Maria – Saggio
istorico sul Regno di Napoli – Napoli, 1824
Summonte Giovanni Antonio – Della
istoria della città e Regno di Napoli – Napoli, 1675
Continuo a sperare di leggere un ""Riccardone"" poi italianizzato Ricciardone . . .
RispondiEliminaMi dispiace, Giuseppe, ma siamo già un po'avanti. L'appellativo Riccardone poteva venir fuori nel periodo normanno in cui sono concentrati tutti i "Riccardo", ma purtroppo, io non ho trovato nessuno con questo appellativo.
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