venerdì 27 aprile 2012

Guglielmo da Ockham penitente a Carinola?

Il filosofo francescano Gugliemo da Ockham in una pergamena
 


Non tutti conoscono Guglielmo da Ockham, una delle figure più importanti del medioevo, né cosa c’entri con Carinola, perciò è opportuno fare una  breve introduzione che, per sommi capi, ne tracci la figura. 
Guglielmo da Ockham, nato nel 1290 a Ockham nelle vicinanze di Londra, fu il pensatore più  vivace del suo tempo; uno che mal sopportava l’autoritasmo papale medievale perché il suo spirito critico aveva bisogno di spazio e di libertà; uno che aveva orizzonte ampio e sguardo lungo, capace di andare oltre la realtà, e che non aveva paura di dire la sua. Molto avanti coi tempi. 
Oggi, filosoficamente, viene classificato come “minimalista”, ossia uno che cerca l’essenzialità nelle cose e che evita di formulare ulteriori ipotesi quando quelle che si hanno sono sufficienti a stabilire qualcosa;  da un punto vista politico, mira invece all’attuazione delle piccole cose concrete di ogni giorno, e non a cose grandiose ed aleatorie. Famosa l’espressione “il rasoio di Ockham” per tagliare tutto ciò che non sia necessario o che sia superfluo, nella vita come nel pensiero, soprattutto il potere temporale papale. Semplificare è la parola d’ordine di Ockham.

Per uno come lui, non ci voleva molto  ad essere accusato di eresia proprio per le sue idee moderne che si scontravano con il medievale opportunismo papale. Quando poi queste idee toccavano direttamente gli interessi concreti della Chiesa, allora la condanna era più che sicura. 
Fedele alla povertà francescana, Ockham sosteneva, infatti, che le comunità cristiane potessero far uso di beni, ma non possederli. Fu estremamente contrario alla rivendicazione di un’autorità suprema da parte del Papato. Per lui, il potere civile era e doveva essere indipendente da ogni investitura o delega papale. Il Papato doveva occuparsi solo del potere spirituale e le due spade che doveva avere tra le mani erano: la parola di Dio e la sua predicazione. Non altro. Queste sue affermazioni non piacevano né al Papato né ad altri ordini ecclesiali che vedevano in lui un nemico da far tacere.
Andò quindi sotto il processo dell’Inquisizione di  Avignone e fu condannato come eretico. Si schierò apertamente dalla parte dell’imperatore Ludovico il Bavaro e si rifugiò a Monaco sotto la sua protezione e lì arrivò la scomunica di papa Giovanni XXII. Rimase a Monaco per quattro anni, dove il generale dell’Ordine Francescano Michele da Cesena, che la pensava molto come lui, cercò di riappacificarlo con la Chiesa. Morto Michele, lo stesso fece l’altro generale dell’Ordine, Guglielmo Farinier, ma  sembra che Ockham morì prima che ciò avvenisse. Altri studiosi ritengono invece che egli scrisse al papa e che da lui ne ricevette il perdono e il rientro nella Chiesa. 

La  versione ufficiale riguardo alla sua morte è che Ockham morì a Monaco nel 1347 e là fu sepolto, ma essa non è suffragata da ulteriori documenti  e si basa solo sul fatto che Ockham avesse dimorato a Monaco e quindi là fosse morto. Ma ecco che entrano in campo gli studi di fra’ Gioacchino Francesco D’Andrea, archivista e bibliotecario della Real Biblioteca di Santa Chiara in Napoli, che mettono seriamente in discussione la morte di Ockham a Monaco e la collocano invece nel nostro convento francescano di Casanova
Cosa ci faceva uno come Ockham a Casanova, in un piccolo e remoto convento dell'Ordine?....  
Il confinato, niente altro che il confinato. 

La vita di questo fuggiasco dell’Ordine Francescano fu in realtà molto più complessa e movimentata di quanto si sappia, e molto ha a che fare con la storia dell’Ordine. Solo il ritrovamento e lo studio di documenti custoditi nella biblioteca di Santa Chiara hanno potuto  permettere un tracciato storico abbastanza credibile della sua  vita e morte.  
Senza entrare in dettagli che possono riguardare solo gli studiosi, vado subito al nocciolo della questione.
Esistono due lapidi di una presunta tomba di Ockham; una si trova a Capua e l’altra a Monaco. Entrambe, nei rispettivi epitaffi, sostengono che la morte del filosofo sia avvenuta nel luogo in cui esse si trovano, ma entrambe sono molto probabilmente false perché non sopportate dalla cronaca degli storici laici del tempo, né  francescani del XIV e XV secolo, come Andrea Richi e San Giacomo della Marca, che molto hanno scritto contro le eresie dei Fraticelli e sugli Spirituali. Inoltre, la pietra tombale di Capua presenta anche delle anomalie cronologiche storiche  assolutamente discordanti. 
Ora, la caratura di Ockham  era tale  che la sua morte non poteva passare inosservata. Questo silenzio da parte di illustri scrittori e storici del tempo fa supporre che le cose non siano andate così come oggi le conosciamo e che la sua morte sia avvenuta altrove. Dove? Nel piccolo e remoto Convento di Casanova, dove era stato confinato dal generale dell’Ordine Guglielmo Farinier, per fare penitenza, dopo che aveva ricevuto il perdono papale.

Questa tesi è sostenuta da due illustri studiosi francescani trovati sempre veritieri e credibili nelle loro affermazioni: Francesco Gonzaga e Luca Wadding. Sono loro a ritenere che Ockham sia morto a Casanova ed entrambi se ne accertarono personalmente. 
Il Gonzaga, divenuto generale dell' Ordine Francescano, volle controllare personalmente sul posto la tradizione carinolese della morte di Ockham a Casanova  e  la trovò così forte e consistente che  non ebbe dubbi. Malgrado la tradizione capuana, che ignorò volutamente dal momento che non poteva bollare la lapide capuana come falsa, egli affermò che Ockam mori nel convento di Casanova. L’affermazione del Gonzaga fece comunque rumore e qualche storico, come Giovanni Hofer, la considerò priva di fondamento e “frutto di invenzioni posteriori”. Per lui, la morte di Ockham in Italia presupporrebbe una riconciliazione con la Chiesa e con l’Ordine, e di questo non esistono certezze.
Analizzando, invece, le varie tradizioni e i vari documenti a sua disposizione, Fra’ Gioacchino formula una sua ipotesi: Guglielmo, riconciliatosi alla fine della sua vita con la Chiesa e con l’Ordine, fu mandato a far penitenza dei suoi traviamenti nel convento di Casanova di Carinola in cui morì e fu sepolto.  Solo qualche anno dopo, le sue ossa furono portate in luogo più noto, a Capua, e  sepolte nella chiesa di San Francesco, dei padri conventuali, dove tutt’ora sarebbero nell’area della suddetta chiesa, distrutta dopo la soppressione napoleonica. 

Per dirla con le parole di fra’ Gioacchino: E’ un’ipotesi che si propone per uscire dall’impasse di un soggiorno in Italia di Guglielmo da Ockham, che ha il suo fulcro in un’iscrizione sepolcrale che non ha tutte le carte in regola per riscuotere universale consenso e nella verifica riscontrata in loco da Francesco Gonzaga e Luca Wadding, giunta sino a noi. Nella situazione attuale, dimostrare con prove irrefutabili il luogo preciso della morte e sepoltura di Ockham e mettere d’accordo le varie tradizioni è un’impresa ardua, superando essa le possibilità della documentazione in nostro possesso. Ma Carinola sembra la località che ha più chances delle altre come luogo del decesso e sepolcro (almeno primitivo) di Guglielmo d’Ockham.
c.d.l.


Documenti  consultati
Dallo studio: Ipotesi sul luogo della morte e sepoltura di Gugliemo d'Ockham  del defunto Fra’ Gioacchino Francesco D’Andrea, archivista e bibliotecario della Real Biblioteca di Santa Chiara in Napoli, basato su documenti in essa custoditi.

sabato 21 aprile 2012

I Vescovi della Diocesi di Carinola II - Da quale parte?

Elezione dell'antipapa Clemente VII
Qualcosa di grave stava accadendo in questo periodo in seno alla Chiesa: era in atto lo Scisma d’Occidente o Grande Scisma, uno dei due scismi che tormentarono la Chiesa e che si protrasse per quarant'anni, dal 1378 al 1417.  Lo scisma spaccò la Chiesa in due fazioni, coinvolgendo nella sua crisi tutto il mondo politico occidentale. Papi ed antipapi, entrambi legittimi perché entrambi eletti da un collegio cardinalizio, si scontrarono in seno ad una Chiesa confusa e bellicosa, che affrontava la fine del medioevo e l’inizio dell’età moderna nel peggior dei modi.   
Le origini di questo scisma vanno ricercate nel conflitto tra la politica assolutistica  di papa Bonifacio VIII, intenzionato a far prevalere la supremazia dei papi, e quello della monarchica francese, che aveva raggiunto il maggior peso politico in Europa, nella persona di Filippo il Bello
Bonifacio era esattemente l’opposto dello spirituale Celestino V, suo predecessore. Egli  era dispotico ed  energico e le sue prime azione rivelarono la tempra dell’uomo: relegò Celestino V nella Rocca di Fumone, scomunicò e depose i cardinali delle famiglie a lui nemiche, tra cui i Colonna, espugnò città e rocche nemiche, combattè il regno angioino. Più che un papa era un guerrafondaio affamato di potere. Le convinzioni politiche e dottrinarie di Bonifacio lo spinsero ad introfularsi pesantemente nella vita politica  e questo non piaceva né alla Chiesa stessa nè ai sovrani del tempo.
Nella bolla papale Unam Sactam, Bonifacio concentrò tutta la sua dottrina secondo cui alla Chiesa spettava sia il potere temporale che quello spirituale e con questa convinzione giustificava il suo intromettersi nella politica del tempo. Alla bolla fece seguire la scomunica  del re Filippo il Bello e la proclamazione che i suoi sudditi potevano considerarsi sciolti dal giuramento di fedeltà alla sua persona. 
La risposta di Filippo non si fece attendere: egli convocò una riunione degli Stati Generali, dove Bonifacio fu dichiarato illegittimo, e convocò un nuovo concilio a Lione, di fronte al quale il papa doveva presentarsi per essere giudicato. In questa diatriba di scomuniche e contro-scomuniche, di ambascerie e contro-ambascerie, Bonifacio si prese il famoso schiaffo da Sciarra Colonna nel palazzo papale di Anagni e si fece qualche giorno di galera, prima di essere liberato dal popolo. 
All' avido e prepotente Bonifacio l’oltraggio costò la vita, forse per un attacco di bile; alla Chiesa costò invece la sottomissione alla monarchia francese che, per i successivi decenni,  ebbe un ruolo determinante nella scelta dei pontefici. Fece persino trasportare la sede papale in territorio francese, ad Avignone, feudo angioino, per convogliare in quel luogo tutte le ricchezze (collettorie) provenienti dal mondo cattolico. La sede papale rimase ad Avignone per settant’anni, dal 1305 al 1377, e può considerarsi un vero e proprio periodo di cattività della Chiesa.  In quei decenni, furono eletti ben sette papi francesi, ma quello fu anche un periodo in cui la decadenza spirituale del papato offuscò di molto il prestigio morale della Chiesa, con conseguente diminuzione degli introiti finanziari. Era dunque di fondamentale importanza che il Papato tornasse a Roma e si riappropriasse della sua dignità morale. 
Fu Santa Caterina da Siena che riuscì a convincere il papa Gregorio XI a ritornare a Roma. Appena in tempo perché, l’anno dopo, nel 1478, Gregorio morì. Purtroppo. 
Il conclave che si aprì per eleggere il nuovo papa fu un vero e proprio campo di battaglia tra i cardinali francesi, che erano la maggioranza, e quelli italiani.  Questi ultimi, temendo l’elezione di un nuovo papa francese che avrebbe riportato il papato ad Avignone, minacciarono  quelli francesi. Tra minacce e pressioni, fu eletto l’arcivesco di Bari, Bartolomeo Prignani, che prese il nome di Urbano VI. Ma i cardinali  francesi non erano affatto contenti; si riunirono in un nuovo conclave a Fondi ed elessero papa Roberto di Ginevra, che assunse il nome di Clemente VII e che stabilì la sua sede ad Avignone. Si crearono così due ubbidienze in seno alla Chiesa, quella romana e quella avignonese. 
Aveva così ufficialmente inizio lo Scisma d’Occidente che per quattro decenni  tormentò la Chiesa e le sue diocesi, tra cui la nostra Carinola
In realtà i papi furono tre, perché i cardinali, che non volevano parteggiare né per l'una nè per l'altra obbedienza,  si riunirono a Pisa in un concilio per cercare di risolvere quella divisione nella Chiesa ed elessero un nuovo papa, Alessandro VMa il Concilio di Pisa non fu mai riconosciuto da nessuna delle due obbedienze in carica.
Lo scisma durò fino al 1417-18 quando, grazie alla determinazione dell' imperatore Sigismondo di Lussemburgo, fu convocato il Concilio di Costanza, durante il quale furono deposti sia il papa che l'antipapa e fu eletto un nuovo legittimo papa, il cardinale Oddone Colonna, che assunse il nome di Martino V
La prima grande crisi della Chiesa fu infine superata, ma se ne preparava una seconda, ancora più distruttiva della prima. E quella non sarebbe mai stata superata.

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Matteo di Melfi, chierico di Napoli, aderì all’obbedienza dell’antipapa Clemente VII. Fu nominato vescovo di Carinola già nel 1384, quando era ancora vivente il vescovo Giuliano che era passato all’obbedienza di Urbano VI. In quell’anno, Clemente VII ordinò all’arcivescovo di Corfù e al vescovo di Cosenza di deporre il vescovo di Carinola Giuliano,  ma questi non volle andarsene e lasciare la sua sede. Solo nel 1388, alla morte  di Giuliano, Matteo divenne vescovo di Carinola, ma non sappiamo se si trasferì in sede.

Fra’ Leone: di lui conosciamo solo il nome

Giovanni venne nominato vescovo di Carinola anch’egli nel 1388 da papa Urbano VI. Due papi e due vescovi per la stessa diocesi: chi dei due fu fisicamente presente a Carinola?

Marzio o Marco, fu eletto vescovo nel 1403.

Antonio, presente al Concilio di Pisa del 1409 e vi si sottoscrisse.

Jacopo di Guglielmo, primicerio della Cattedrale di Capua, fu fatto vescovo nel 1420 e lo rimase per ventisei anni, morendo nel 1446.

Carlo Sforzati, anch’egli primicerio della Cattedrale di Capua e forse nipote di Jacopo. Fu fatto vescovo di Carinola il 1447 fino alla morte avvenuta nel 1477.

Francesco Grassolo o Grassullo, anche lui di Capua, fu vescovo  dal 1477 al 1481.

Stabile Zalliro o Zarrillo, fu l’immediato successore e morì nel 1488.

Giovanni,  proveniente da Strongoli,  fu vescovo dal 1488 al 1501, anno della sua morte. Nel 1494 era presente all’incoronazione di re Alfonso II ed ottenne come suo aiuto il chierico spagnolo Pietro Gamboa che poi lo sostituì.

Pietro Gamboa, fu anche vicario del papa a Roma e morì verso il 1510. Fu lui a confessare ed amministrare l’olio santo a papa Alessandro VI, Rodrigo Borgia, nel 1503.

Gian Antonio Orfeo resse la diocesi dal 1510 al 1518. 

Gian Francesco de Anna, ne fu l'immediato successore, ma nel 1520 rinunziò a favore del proprio nipote

Gian Ferdinando de Anna, giovanissimo nipote del precedente, fu accusato più volte di esagerata imposizione delle tasse, imprigionato a Castel Sant'Angelo, dopo nove anni fu trasferito ad Amalfi.

Giovanni Canuti gli successe nel 1530, ma dopo cinque anni fu trasferito a Cariati.

Taddeo Pepoli fu invece trasferito da Cariati a Carinola nel 1535. Resse la nostra diocesi per 14 anni e morì a Roma.
c.d.l.

Alcuni testi consultati

Boenio, Brocchieri, Fumagalli – La chiesa invisibile – Milano. 1978
Brodella don Amato –Storia della Diocesi di Carinola – Minturno, 2005
Cappelletti Giuseppe – Le chiese d’Italia dalla loro origine sino ai nostri giorni -  vol. 20 – Venezia, 1866
De Rosa Gabriele – Età Medievale  - Bergamo, 1989
Falchi Giorgio - La Santa Romana Repubblica-Milano-Napoli, 1986
Montanelli Indro - Storia d'Italia - vol I -
Morghen Raffaello - Medioevo cristiano - Laterza, 1974
Tosti  Luigi – Storia di Bonifacio VIII e dei suoi tempi – Roma, 1866

martedì 17 aprile 2012

I Vescovi della Diocesi di Carinola - Parte I

Museo Diocesano di Velletri - Miniatura su pergamena: Ingresso del Vescovo in Diocesi
Articolo aggiornato il 18 aprile 2012

La Diocesi di Carinola  durò ben 718 anni, dal 1100 al 1818, ossia da quando San Bernardo spostò la sede episcopale da Foro Claudio a Carinola, fino a quando essa fu accorpata a quella di Sessa. In questi sette secoli  di vita, la diocesi attraversò tutta la storia del Regno di Sicilia nelle sue trasformazioni, vivendo sulla propria pelle gli umori e i voleri di sovrani incapaci o illuminati e di un clero bellicoso e avido di potere, che poco aveva a che fare con la Chiesa d’origine voluta da Gesù,  suo Fondatore.

I vescovi che si alternarono alla guida di questa piccola, ma importante diocesi e di cui siamo a conoscenza grazie ad una cronatassi storica, furono 56; se poi consideriamo gli altri tre vescovi di cui siamo a conoscenza per Foro Claudio, Gaudenzio, Colonio e Giovanni, allora essi salgono a 59. Esiste però un vuoto di oltre un secolo, che va dal 1113 al 1221, in cui  manca una cronaca sui vescovi di Carinola. Non possiamo sapere quanti e quali vescovi guidarono la diocesi in quel secolo.

Molti vescovi lasciarono la loro impronta sia nella Cattedrale, per renderla più bella e più adeguata ai tempi, sia nella memoria del popolo carinolese. Molti altri non lasciarono nulla, neanche il nome.
A cominciare da San Bernardo, ecco la lista di tutti i vescovi che hanno guidato la Diocesi di Carinola.


San Bernardo fu l'ultimo vescovo di Foro Claudio e il primo della Diocesi di Carinola.  Nato a Capua, ancora giovane divenne chierico di corte e, più tardi, consigliere e confessore personale di Riccardo II, figlio di Giordano principe di Capua. Divenne vescovo nel 1087 e fu subito assegnato alla diocesi foroclaudiense. Nel 1094 traslò  il corpo di San Martino da Monte Massico a Foro Claudio che più tardi, nel 1100, quando  trasferì la sede episcopale a Carinola, trasportò nella nuova cattedrale. San Bernardo fu vescovo di Carinola per ben 23 anni e là mori il 12 marzo del 1109. Fu sepolto nella sua Cattedrale in una cappella a lui dedicata.


Giroldo ne fu l’immediato successore. Di lui non si hanno molte notizie se  non che sottoscrisse al privilegio di Senneto, arcivescovo di Capua, nel 1113.


Un anonimo era vescovo di questa Diocesi nel 1221 e per la sua grande ignoranza fu deposto da papa Onorio III.


Un anonimo, vescovo di Caleno, nell’agosto de 1233, si trovava con altri vescovi, tra cui quello di Teano, alla presenza del giustiziere di Terra di Lavoro per ordine di Federico II. Ce ne da notizia Riccardo da San Germano nella sua Chronica


Un vescovo il cui nome iniziava per P (forse Pietro) fu trasferito nel 1250, dalla Diocesi di Carinola all’ Arcidiocesi di Sorrento.


Stefano di Maestro Riccardo de Cayeta fu fatto vescovo di Caleno nel 1252 dal cardinale diacono Ottobono per ordine di papa Innocenzo IV.


Berteratino era vescovo di Carinola nel 1270. Di lui troviamo traccia in un’ampolla di vetro in cui conservava diverse reliquie di santi ed in cui era anche un biglietto col il suo nome: Bertheratinus episcopus Caleni.


Paolo lo troviamo vescovo nel 1275. Di lui si trovano tracce nei monumenti della Cattedrale. Morì sotto papa Niccolò IV. 


Roberto ne fu l’immediato successore. Fu eletto dal Capitolo della Cattedrale, confermato dal cardinale vescovo di Palestrina, legato pontificio e consacrato per   ordine del papa Niccolò IV dal vescovo di Caserta nel 1291. 


Giovanni era vescovo di Carinola nel 1304. 


Pietro  era invece vescovo nel 1311, ai tempi di re Roberto. 


Giovanni da Castello era invece  vescovo nel 1321 allorchè papa Giovanni XXII voleva trasferirlo in Dalmazia nella sede di Castro, provincia di Zara. Ma  si rifiutò di andare e morì nel 1325 a Carinola, dove fece ristrutturare l’Episcopio e arricchì di ornati la Cattedrale.


Fr. Pietro Borbelli, francescano di Gaeta, fu eletto dal capitolo della Cattedrale per compromesso ed ebbe la conferma pontificia il 15 gennaio del  1326. Dopo quattro anni di episcopato a Carinola fu trasferito a Valve. 


Niccolò, prevosto di Valve, gli fu sostituito a Carinola il 25 maggio del 1330. Dopo tre anni ritornò come vescovo a Valve. Non si conoscono i motivi di questi movimenti di scambio. 


Buonagiunta da Perugia fu l’immediato successore, diventando vescovo di Carinola il 30 ottobre 1333. Rimase a Carinola quattordici anni, fino alla sua morte.


Fr. Bernardo II Aggeri, agostiniano, ne fu il successore  dal 10 novembre 1347 al 1358, anno della sua morte.


Fr. Giovanni, eremita agostiniano di Montepulciano, fu trasferito a Carinola il 4 febbraio 1359 dalla sede di Voltoraria. 


Feo o Feola nominato vescovo di Carinola il 16 ottobre 1360   per un solo anno perchè nel 1361 fu trasferito a Siponto, dove rimase fino al 1375.


Fr. Riccardo de’ Tedaldi nobile fiorentino, domenicano del convento di Santa Maria Novella, illustre teologo, divenne vescovo di Carinola nel 1363, ma visse molto poco. 


Marino o Martino, suo immediato successore, proveniva dalla Diocesi di Sora nel 1364. 


Fr. Giuliano, detto anche Giubino, fu trasferito a Carinola il 27 maggio 1365, proveniente dal vescovado di Stefaniaco e Benda, in Albania, in partibus infedelium (nelle terre dei non credenti), ossia in quelle terre dove non era tollerata la fede cattolica


c.d.l 
Testi consultati

Cappelletti Giuseppe - Le chiese d'Italia dalla loro origine sino ai nostri giorni - Venezia, 1866
Brodella don Amato -  Storia della Diocesi di Carinola - Minturno, 2005

lunedì 9 aprile 2012

Il Sacello mosaicato dell'ex Cattedrale di Carinola. Genesi e sviluppo architettonico

 Sacello dell'ex Cattedrale di Carinola: parete nord-est
Sulla Cattedrale di Carinola sono stati fatti molti studi anche da un punto di vista pittorico-architettonico. Credo che i lettori apprezzeranno un approfondimento sul Sacello di cui oggi rimane testimonianza. L'amico Silvio Ricciardone non me ne vorrà se pubblico un suo studio, molto esauriente, per permettere ai lettori di saperne di più. Lo studio sul Sacello è possibile trovarlo in Ugo Zannini (a cura di) Paesaggio storia archeologia ed arte della Campania Settentrionale - Falciano del Massico (CE), 2006 - pp 77-88
*****
L'ex-cattedrale di Carinola, sede vescovile fino a quando, nel 1818, la locale diocesi fu annessa a quella di Sessa Aurunca[2], conserva un'eccezionale decorazione musiva nel sacello a destra del presbiterio cui si raccorda la navatella di sud-ovest più esterna (figg. 1 e 2). Le parti superstiti abbelliscono il sottarco antistante una piccola abside, nonché il tratto frontale dell'arco interno che la delimita (fig. 3): se nel primo campeggiano quadripetali su fondo bianco, il secondo reca una doppia serie di palmette pentafoglie, intervallate in alto da fiori di loto e convergenti verso una croce centrale aurea, con i caratteri apocalittici, entro un clipeo tripartito. Infine, nel punto d'imposta sinistro del sottarco come della parete frontale emerge qualche lettera sormontata da due cespi d'acanto. Manca, al contrario, la decorazione nella zona destra dell'intradosso e alla base del tratto ad essa ortogonale.
Dell'oratorio e dei suoi mosaici si è avuta cognizione solamente negli ultimi decenni[3].
La scoperta risale al restauro dell'ex-cattedrale tra il 1959-60 ed il 1967[4]. Fu l'architetto Pirani, attivo a Carinola ed alla basilica di S. Maria in Foro Claudio, presso Ventaroli, su incarico della Soprintendenza Archeologica, ad individuare l'absidiola mosaicata nei primi anni Sessanta[5]. Il riassetto della cappella con la sua stesura musiva spetta, invece, all'architetto Margherita Asso[6].
Si converrà che l'ubicazione della cattedrale normanna in relazione al vano a mosaico resti il dato oggettivamente più immediato da cui partire. A tal riguardo, fonti artificiose insieme a tarde, e non meno dubbie, epigrafi leggibili nella chiesa hanno da sempre inficiato la reale cronologia degl'interventi.
Stando alle prime, Bernardo, una volta vescovo di Foro Claudio dal 1087, decise il trasferimento della sede episcopale a Carinola che, previo il consenso del conte Gionata, venne dotata di una cattedrale, intitolata alla Vergine e a S. Giovanni Battista, entro il 1094, anno della traslazione dal monte Massico delle reliquie di S. Martino[7].
Le epigrafi parrebbero avallare, almeno a livello di coordinate temporali, una tradizione per molti aspetti autonoma dalle fonti ecclesiastiche. Una prima iscrizione del 1725 voluta da monsignor Abbate in onore di Antonio della Marra, vescovo di Carinola all'inizio del Settecento[8], precisa, fra l'altro, che "il divino Bernardo aveva edificato (il tempio in onore della Madre di Dio e dei due Giovanni) nell'anno 1100 e (lo) aveva eretto a cattedrale su approvazione di Pasquale II"[9]. Una seconda iscrizione promossa da monsignor Abbate a ricordo della tappa carinolese di papa Benedetto XIII (1729), confermando che "il tempio (fu) insignito della cattedra episcopale da Pasquale II nell'anno 1110", ne attribuisce la consacrazione a "Gelasio II nell'anno 1118"[10]. Poiché le due epigrafi rimandano al medesimo committente - il vescovo Abbate - se ne può immaginare una chiave di lettura univoca.
Il rinvio al 1100, riportato nel passaggio divus Bernardus…construxerat, esula, per la sua genericità, da conclusioni definitive. Il 1110 contrasta con il dato, appurato nella prima iscrizione, che vuole Bernardo artefice dell'elevazione della chiesa a cattedrale su consenso di Pasquale II, stante la scomparsa del presule nel 1109[11]. Forti perplessità ricadono anche sull'anno 1118 per la correzione dell'iniziale stesura MCXIII in MCXVIII, oggi visibile sulla lapide[12]. Senza contare la compresenza, non immune da interpretazioni discordi, delle versioni "erezione a cattedrale", "assunzione della cattedra episcopale", entrambe riferite a Pasquale II, e "consacrazione", relativa, invece, a Gelasio II.
Fortunatamente restano le testimonianze documentarie, fondamentali per la collocazione storica della figura di Bernardo, ricordato quale vescovo di Carinola nell'anno 1101[13], e per l'attestazione della nuova cattedrale nel 1109[14]. Che il presule sia il fondatore del complesso religioso è provato dalle epigrafi di età normanna incise sugli architravi del portale centrale e dell'ingresso laterale destro[15]. Ne deriva l'esistenza della cattedrale nel 1109, non escludendo, tuttavia, il suo compimento fin da quel 1101 in cui Bernardo è incontrovertibilmente vescovo di Carinola.
Come si diceva, pare indubbia la dislocazione della cattedrale romanica in rapporto all'oratorio[16]: prova ne sia la palese continuità in lunghezza fra il lato destro della chiesa bernardina ed il perduto margine sinistro del sacello (figg. 1 e 2). Il primo corrisponde all'ideale prosecuzione del settore ove s'innestava l'absidiola di destra e intuibile dalle lastre di marmo bianco che ne simulano il tracciato nella navatella di sud-ovest più interna, al livello del pavimento[17]. Il margine sinistro del sacello non poteva, invece, che svilupparsi simmetricamente all'opposto muro di destra, del quale, infatti, ancora rimangono le zone di raccordo con la parete impreziosita dai mosaici e con l'alzato di controfacciata[18]. Si tratta, in dettaglio, di tre cavità evidenziate dai restauri, una nella parte sud-orientale (fig. 4) e due, giusto di fronte, lungo il lato d'ingresso all'oratorio, allineate in verticale (figg. 5-6). Entro le intercapedini si notano blocchi di tufo grigio ben squadrati, gli stessi di altri punti del muro nord-occidentale, nonché nei resti dell'absidiola, nelle parti non ritoccate dell'arco antistante e in cinque corsi che lo sormontano fino ad una coppia di fori, forse per le travi di copertura, oggi occlusi[19] (fig. 7). Era proprio la parete sud-orientale quella intonacata per l'allettamento del mosaico, come s'intuisce dalle diffuse scheggiature superficiali dell'invaso, dell'arco che lo precede e dei filari sovrastanti[20]. A conferma di ciò restano gli unici frammenti musivi estranei alla decorazione principale e tuttora visibili sopra a sinistra: le tessere, qua e là nascoste dalla malta, appaiono di tono aureo, turchino, verdastro[21].
Ma ritorniamo ai conci dell'alzato: visto che di analoghi ne esistono nei muri perimetrali della basilica di S. Michele Arcangelo a Sant'Angelo in Formis, sia per materiale, tufo grigio, che per "modulo", di norma 20 - corrispondente alla loro altezza in cm. -; visto che nel monumento tifatino corrono, non in maniera episodica ma per tratti prolungati, inferiormente a quelli di età desideriana (scorcio dell'XI secolo), dai quali si distinguono per fattura e tipologia; vista la conseguente posteriorità dei secondi rispetto ai primi, ancorabili, viceversa, ad una fase quantomeno altomedievale, ne deriva una simile collocazione cronologica per l'opera quadrata del sacello carinolese[22]. Ha un senso, così, il vincolo architettonico, assunto come premessa, della fondazione bernardina alla più antica cappella mosaicata.
Gli ambiti d'intersezione, ricordati sopra, fra le pareti trasversali e longitudinale destra consentono di definire l'icnografia originaria dell'aula. La pianta risulterebbe rettangolare, con una larghezza di circa 4,85 m. ed una lunghezza intorno ai 7,80 m., comprensiva dell'abside; la luce di quest'ultima corrisponde a 2,58 m., mentre la profondità è di 1,29 m. Tutti i valori non prevedono lo spessore parietale che, stando al superstite muro di controfacciata, doveva aggirarsi sui 40 cm. Misurate dal piano di calpestio, le altezze dell'arco absidale e dell'invaso raggiungono all'incirca i 4,68 m. e i 4,31 m., inclusi gli 11 cm. dello scalino. Nel complesso, l'alzato avrebbe toccato pressappoco i 6 m.[23].
All'indomani della morte di Bernardo nel 1109 l'ambiente conosce, a quanto pare, un'importante rifunzionalizzazione, venendo destinato ad oratorio funerario del vescovo scomparso. Da qui l'ipotesi di una sua radicale trasformazione sia a livello spaziale, con l'abbattimento della parete longitudinale destra, che decorativo, per la nuova pavimentazione in opus sectile estesa ben oltre il limite precedente[24]. Della struttura di destra si è già discusso a proposito del raccordo con i lati nord-ovest e sud-est; merita un cenno, invece, la superficie pavimentale riemersa parzialmente con i restauri[25] e costituita da elementi di spoglio[26].
La trama combina grandi tracciati geometrici e una fitta sequenza di motivi non meno regolari. Vi spicca la soluzione, consueta per quei tempi, del quinconce, data dalla compresenza di cinque rotae[27] (fig. 8). Per il resto, il tappeto marmoreo sviluppa vari disegni, fra i quali triangoli in serie intervallati da altri più piccoli che si compattano quattro per volta, esagoni, doppi quadrati con losanghe interposte e così via.           
Alla base esiste una chiara filiazione cassinese dal famoso pavimento, oggi frammentario ma raffigurato nel Settecento dal Gattola, che l'abate Desiderio commissionò ad artefici orientali contestualmente alla ricostruzione della basilica (1066-71)[28].
Raffronti reali per ciascuna delle soluzioni ricordate emergono, di fatto, dal battuto lapideo di S. Menna a Sant'Agata dei Goti[29]. Anzi, la sua consacrazione nel 1110 per mano di papa Pasquale II[30] supporta, anche a livello storico, la cronologia immediatamente postbernardina del rinnovo del sacello. La parentela fra l'archivolto del portale centrale carinolese, stilisticamente "più avanti" dei sottostanti rilievi leonini come di un capitello del portico loro affine, e quello di S. Menna[31] confermerebbe, al riguardo, la nuova fase edilizia d'inizio XI secolo. Rimane il problema dell'entità dei lavori svolti in quel frangente e valutati dalla critica in una duplice prospettiva.
Una prima ipotesi[32] ascrive l'intervento nell'oratorio ad una più ampia campagna costruttiva, estrinsecatasi nella demolizione della vecchie absidi in favore di un transetto con presbiterio sopraelevato. Ciò avrebbe imposto la rimozione preventiva del muro sinistro della cappella con l'arretramento conseguente del lato nord-orientale. Alla mutata planimetria non corrisponderebbe, comunque, una riduzione spaziale dell'ambiente per il contestuale abbattimento dell'alzato di destra. Il sacello, infine, sarebbe stato accorpato alla cattedrale tramite una navata, la quarta, scandita a nord-est da colonne e a sud-ovest da quadrifore, opportunamente tamponate e riconducibili, forse, ad un portico o ad un chiostro del palazzo episcopale di Bernardo (fig. 1).
Un riscontro documentario emergerebbe dall'epigrafe del 1729 in onore di Benedetto XIII e, specificamente, nel passo che evidenzia la consacrazione dell'edificio nel 1118 per mano di Gelasio II: è a tale data che potrebbe risalire la conclusione delle operazioni.
Una seconda ipotesi[33], fermo restando la ridefinizione dell'area del sacello in piena epoca normanna, posticipa l'ammodernamento della cattedrale al secolo XIV; solo nel Trecento, pertanto, con il raccordo fra galleria porticata di sud-ovest e corpo delle navate, l'oratorio paleocristiano verrebbe annesso alla chiesa (fig. 2).
A sostegno della prima delle due congetture sembrano porsi gli affreschi sul muro nord-orientale dell'aula funeraria. Si tratta di una decorazione entro tre riquadri molto danneggiati (fig. 9): di quello iniziale rimane il vertice inferiore destro, mentre degli altri si conserva la sola metà a ridosso del piano di calpestio. I pannelli presentano intrecci bianchi e giallo arancio in contrasto con il fondo verde e sono racchiusi da cornici in ocra gialla; fra queste s'interpongono singole bande verticali in terra di Siena bruciata che salgono da una zoccolatura di base di un'analoga tonalità. L'effetto globale è illusionistico, simulando vagamente un parapetto transennato o a grate metalliche.
L'importanza del registro risiede nella riconducibilità dei riquadri in successione, come, in parte, delle trame, a soluzioni della miniatura cassinese dell'XI secolo, in specie per la resa delle iniziali[34].       
Non sarebbe fuori luogo, quindi, fissare al principio del XII secolo l'erezione della struttura muraria con gli affreschi e, di conseguenza, l'intero presbiterio sopraelevato, del quale gl'intrecci dipinti occupano il margine destro[35]. In tal caso, si definirebbe un equivalente parietale del gusto geometrico che, nel medesimo frangente, connota l'ordito pavimentale del sacello.
Apparentemente meno certo è il momento della creazione della quarta navata, ove i massicci capitelli a piramide tronca e gli archi trasversali a sesto acuto sollevano più di un interrogativo[36]. Ad ogni modo, se i primi ricordano qualche esempio normanno di Aversa per la superficie liscia a spigoli aggettanti[37], i secondi parrebbero, invece, indicare una copertura successiva[38].
Il rifacimento del vano a mosaico dovette maturare con la deposizione in loco delle spoglie di Bernardo, nel sarcofago marmoreo che oggi impegna il succorpo del Santo attiguo al sacello[39] (fig. 11). L'oratorio divenne, così, il punto nevralgico della cattedrale[40], sebbene già da prima potrebbe aver accolto la cassa sepolcrale, stante il suo incastro quasi perfetto nell'absidiola mosaicata; nulla vieta, addirittura, che la luce dell'invaso sia stata concepita in funzione del manufatto tardo antico.  
Del resto, l'ubicazione di sarcofagi entro nicchie o anche sotto arcate di monumenti paleocristiani, le une e le altre impreziosite da mosaici, non rappresenta, a livello locale, una novità. Il richiamo, supportato da un'incisione seicentesca di Michele Monaco (fig. 14), è al sacello, dalla straordinaria decorazione musiva, di S. Matrona a S. Prisco, presso S. Maria Capua Vetere, ed in specie alla sua parete di fondo, chiusa da una lunetta oggi scomparsa, al centro della quale campeggiava una croce ad estremità patenti e lobate, oltre che gemmata, sui quattro fiumi del Paradiso e fra dodici colombe. Appena davanti la lunetta, circoscritta da un sottarco con un festone vegetale, era il sarcofago di S. Matrona[41]. Che poi all'abbellimento della cappella, ritenuto dai più della prima metà del V secolo[42], si leghi la sistemazione tramandataci dal Monaco sembrerebbe più che probabile.
Il carattere sepolcrale dell'oratorio carinolese troverebbe conferma anche in una perduta epigrafe sui gradini dell'atrio della cattedrale, dov'era visibile, e trasmessa dal Menna[43]. Vi si alludeva separatamente ai vescovi sinuessani Cassio e Secondino ed in particolare alla custodia delle loro reliquie nel luogo destinato all'iscrizione. A prescindere dal valore della testimonianza, rimane l'inattendibilità storica del contenuto testuale. Già il dato di Cassio, e non Casto, quale vescovo di Sinuessa è in contrasto con la tradizione che vuole Casto presule di Sessa Aurunca[44]; al riguardo, però, il Menna, avvezzo agli errori, potrebbe aver esteso l'aggettivo sinuessanus, giustamente riferito a Secondino[45], pure a Casto. L'aspetto fondamentale, tuttavia, resta l'elaborazione "a tavolino" del martirio sinuessano occorso sotto Diocleziano ai due Santi.
Casto e Secondino, nonché Cassio, protagonista con Casto di una seconda Passio, corrispondono, infatti, quasi certamente a martiri africani, assunti come beati locali in diverse zone non solo della Campania[46].
Ad ogni modo, la presenza della lapide a ridosso della cattedrale solleva più di un interrogativo sulle possibili reliquie del complesso religioso. In questo caso, l'idea di vincolarle al sacello pare abbastanza verosimile, fino a scorgervi, teoricamente, la ragione delle scelte costruttive bernardine.
Al di là di tutto si profilerebbe per il sacello carinolese la condivisione di una cronologia paleocristiana con il suo omologo di S. Prisco, sulla scorta della comune destinazione funeraria. Anche storicamente la prospettiva avrebbe una palese logicità per l'esistenza, alla fine del V secolo, della locale diocesi di Forum Popilii, il perno urbano dell'ager Falernus[47]. A comprovarla è un'epistola del 496 di papa Gelasio I che menziona due vescovi, Rustico e Fortunato, con l'incarico di saggiare lo stato del "collega" foropopiliense in difficoltà[48].
Non resta che fissare in compiuti termini cronologici la collocazione paleocristiana del sacello carinolese[49]: la disamina della sua decorazione musiva in chiave iconografica, stilistica e tecnica completerà, in tal senso, il discorso avviato in questa sede[50]
Silvio Ricciardone




[1]Il contributo riprende il capitolo iniziale della tesi di laurea dell'autore, discussa il 10/07/2002 presso l'Istituto Universitario "Suor Orsola Benincasa" di Napoli, relatrice prof. ssa Grazia Marina Falla (cattedra di Storia dell'Arte Bizantina), dal titolo Il mosaico del sacello nella cosiddetta cattedrale di Carinola.
[2] Cfr. D'Angelo 1958, pp. 111 s.; Marini Ceraldi 1980, p. 1; Di Silvestro 1996, pp. 132, 139 s. e 144, e Brodella 1996, pp. 18, 28 e 59 s.
[3] Questi gli studi sull'argomento: Asso1967; Budriesi (1974) - l'estratto afferisce ad atti, in realtà, mai pubblicati -; Korol 2000; Falla Castelfranchi c.s.
Per ulteriori riscontri cfr. D'Onofrio 1979, pp. 28 s., e la sua riproposizione integrale in D'Onofrio - Pace 1981, cui si farà preferibilmente riferimento, pp. 104 s.; Robotti 1979,  pp. 107 s. e 118, n. 56; Guadagno 1987a, pp. 33 e 54; Aceto 1994, p. 305; Carinola 1997, p. 73 ss.; Guadagno 1997, p. 91, n. 74; Id. 2002, p. 37; Caiazza 2003, pp. 1242, n. 104; Piccirillo 2003, p. 176, n. 111.
[4] Budriesi (1974), p. 4, n. 6; D'Onofrio - Pace 1981, p. 104, e Guadagno 1987a, p. 54.     
[5] Marini Ceraldi 1990, p. 36.
[6] Asso 1967.
[7] Per una rigorosa esegesi delle fonti e per la loro infondatezza storica, adeguatamente supportata da prove, cfr. Guadagno 1997.
[8] Ughelli 1720, col. 473, e Cappelletti 1866, p. 235.
[9] Questo il testo latino: …divus Bernardus epus anno MC. construxerat et Pascalis II authoritate in cathedralem erexerat (cfr. Guadagno 1997, p. 80, e n. 27).
[10] Il testo è: …templumque istud a Paschale II an MCX episcopali cathedra adauctu a Gelasio II an MCXVIII…sacratu (cfr. ivi, pp. 80 s., e n. 28, nonché tav. XV).
[11] Cfr. ivi, p. 83.
[12] Ivi, p. 81, n. 29.
[13] Sappiamo della sua presenza a Benevento insieme a papa Pasquale II e ad altri vescovi per una vertenza fra due esponenti del clero aversano (Kehr 1935, p. 283, 9, e cfr. Guadagno 1997, pp. 80 e 83).
[14] Si allude a una donazione del conte Riccardo in cui è citata la "chiesa episcopale carinolese di S. Giovanni". Nelle fonti ecclesiastiche trattate in precedenza la dedicazione viene estesa anche alla Vergine (Mazzoleni 1957, p. 29, doc. XI, a. 1109, e cfr. Guadagno 1997, pp. 83 e 92).

[15] La prima recita: hoc opus ornatum specie solamine gratum  qud non fama tegit Bernardus eps egit ["Bernardo  vescovo costruì questo tempio, splendido nella forma, gradito a sollievo (dell'anima) che la fama non nasconde"]; la seconda, invece: auctor portaru Bernardus eps harum regno donetur cui ianua Xps habetur ["Bernardo vescovo (fu) autore di queste porte. Sia concesso il Regno (di Dio) a colui che Cristo reputi porta (per raggiungere il cielo)"]. Cfr. D'Angelo 1958, p. 64; D'Onofrio - Pace 1981, p. 104, e Guadagno 1997, p. 98, n. 102, e tavv. XVI, a-b.
[16] Cfr. Asso 1967; D'Onofrio - Pace 1981, p. 104, e Korol 2000, p. 149.
[17] Messe in opera con gli ultimi restauri, le lastre chiare ricompaiono nell'impiantito del coro per il profilo delle absidi bernardine (cfr. Robotti 1979, p. 107; D'Onofrio - Pace 1981, p. 104, e Guadagno 1987a, p. 54).
[18] Cfr. Korol 2000, p. 150.
[19] Ivi, pp. 150 e 153 s. Più su, al contrario, i blocchi, di dimensioni ridotte, sembrano successivi (Ivi, p. 154).
[20] Ivi, pp. 153 s., e cfr. già Budriesi (1974), p. 6.
[21] Korol 2000, p. 153, e tav. 3,4.

[22] Cfr. Guadagno 2002, pp. 36 ss., e tavv. VI s. Vi si menzionano, altresì, una chiesa di Marano (NA) dalla tessitura muraria affine (datata fra IV e VI secolo), nonché la basilica nova (inizi del V secolo) e quella di S. Stefano (forse di VI secolo) a Cimitile, con pareti perimetrali di tufelli alti in media 15 cm. Sempre del complesso nolano Korol ritiene il Tuffquadermauerwerk occidentale dell'aula feliciana (prima metà del IV secolo) un possibile indizio per "paleocristianità" della muratura di Carinola (Korol 2000, p. 151, n. 6, e cfr. SCCMe 1992, fig. a p. 159).
[23] Per le dimensioni del sacello cfr. anche Korol 2000, pp. 149 ss. e 154, e nn. 5 e 7.
[24] Asso 1967, e D'Onofrio - Pace 1981, pp. 104 s.
[25] Robotti 1979, p. 108, e cfr. Asso 1967.
[26] Falla Castelfranchi c.s. Una soglia lungo il tratto, ben riconoscibile nel piano di calpestio, dell'antico fianco sud-occidentale si spiegherebbe in questi termini (cfr. Korol 2000, p. 151, n. 6), analogamente all'impiego di materiali pregiati come il porfido.
[27] Cfr. Cigola 2000, p. 234.
[28] Oltre a Gattola 1733, tav. VI, cfr. D'Onofrio - Pace 1981, pp. 43 ss. e 71, e Cigola 2000, pp. 232 ss., e figg. 1 ss., nonché, per i resti conservati, Pantoni 1973, pp. 101 ss., e Bloch 1986, I, pp. 44 ss.
[29] Cfr. Corsi 1997 e figg. 3 ss. alle pp. 682 s., e Cielo 1980, pp. 117 ss. La composizione di S. Menna si allinea, con altre testimonianze coeve tra Campania settentrionale e Molise (in specie in Sant'Angelo di Audoaldis e in S. Benedetto a Capua, in S. Michele Arcangelo a Sant'Angelo in Formis ma di provenienza capuana - S. Benedetto -, nella chiesa monastica di S. Vincenzo Nuovo al Volturno e in un ambiente contiguo), alla temperie desideriana irradiatasi da Montecassino (rispettivamente Zampino 1968, pp. 141 s.; Speciale - Torriero Nardone 1997, pp. 152, 154 s., e nn. 21 e 26, e 169; Olevano - Paribeni - Grandi 1997, pp. 627 ss., e Paribeni 2001, pp. 79 s.; Cigola 2000, p. 236, e, in generale, sui litostrati del tempo Glass 1980, e Carotti 1978).
[30] Corsi 1997, pp. 675, e n. 5, e 681, fig. 2; D'Onofrio - Pace 1981, pp. 206 s., e Cielo 1980, p. 91.
[31] Gandolfo 1999, pp. 3 ss., e figg. 1, 3 e 5 ss.
[32] D'Onofrio - Pace 1981, pp. 104 s.
[33] Asso 1967, e Guadagno 1997, p. 81, n. 29.

[34] A titolo esemplificativo si riproduce un dettaglio della pagina 271 del Cod. Casin. 1091 (fig. 10). Per gli aspetti stilistico-cronologici cfr. Orofino 2000, pp. 189 ss.
[35] L'accenno ad una collocazione temporale, sebbene di poco, postbernardina della stesura pittorica è in D'Onofrio - Pace 1981, p. 105.
[36] Cfr. ivi, p. 100, fig. 42.
[37] Cfr. ivi, p. 104.
[38] Robotti 1979, p. 107
[39] Alta 90 cm., larga 2,06 m., e profonda 84 cm., i valori massimi per ciascuna delle tre dimensioni, la cassa palesa una decorazione non omogenea, ove all'elaborato disegno frontale si contrappongono gli imprecisi graffiti laterali - coppie di scudi con lance di età tardo romana (in generale cfr. Polito 1997) -, e la disadorna superficie posteriore, sovrastata da una cornice grezza; l'assenza di rilievi sulla totalità dei lati escluderebbe una provenienza orientale dell'opera (cfr. Matz 1966, p. 25, e Saggiorato 1968, p. 2). La parte anteriore del sarcofago è dominata da una rappresentazione di stampo pagano. Quattro geni alati sorreggono, a due a due, un clipeo, a sinistra con il busto di una donna, e a destra di un uomo (cfr. Korol 2000, p. 150, n. 4). Entrambi i volti non paiono rifiniti: o non lo sono mai stati, nel qual caso verrebbe da pensare al mancato utilizzo del pezzo, o un intervento ex novo, magari per il reimpiego cristiano del manufatto, ne avrebbe intaccato la sagoma. Sotto i tondi ritornano, ma in scala ridotta, due coppie di figure alate cui si aggiungono, verso l'esterno, altrettanti putti, uno con un canestro (a sinistra) e l'altro a cavalcioni di un leprotto (a destra).
Non è improbabile un'allegoria dei Venti o, meglio ancora, delle Stagioni, come i confronti con il sarcofago Barberini della Dumbarton Oaks Collection di Washington sembrano suggerire (fig. 12) - ringrazio il dott. Marco Falcone per la segnalazione. Qui la personificazione delle Stagioni prevede quattro geni alati dalla fisionomia prossima a quelli di Carinola, similmente nudi e con clamide; pure l'idea delle scenette in basso consente di accostare le due opere funerarie, al di là del tondo, doppio nel nostro sarcofago, con l'immagine dei defunti (sul sarcofago Barberini resta essenziale la monografia di Hanfmann 1951, con relativo apparato fotografico). Alla cronologia del sarcofago americano al secondo quarto del IV secolo (ivi, 1, pp. 49 ss., in specie 65 s.) si allinea la generica proposta allo stesso secolo in Asso 1967 e D'Onofrio - Pace 1981 (p. 105) per l'opera di Carinola; una sua retrodatazione al secolo precedente è, al contrario, ipotizzata in Korol 2000 (p. 150, n. 4).
Poco dopo la metà del Settecento il vescovo Salomone promosse l'apertura frontale della cassa, protetta da una grata in ottone, per la visione delle spoglie di S. Bernardo (Menna 1848, II, p. 97, e cfr. Cappelletti 1866, pp. 235 s.).
[40] Non sappiamo quando al limite sinistro dell'absidiola fu addossato un piedritto, con intonaco a motivi fitomorfi, e non solo, giallastri e su fondo bianco (cfr. Korol 2000, pp. 152 s.); la stessa soluzione decorativa si scorge nella parte bassa della conca, alle due estremità, sopra una zoccolatura con una cornice strigilata lungo il margine superiore (fig. 13) e, forse, nella zona sinistra dell'arco absidale, a giudicare da uno strato giallo di malta. In continuità con il lato sud-occidentale della cappella sarebbe sorto, invece, l'odierno succorpo di S. Bernardo (figg. 1 e 2), un ambiente a pianta quadrata e cupolato. La sua cronologia all'età rinascimentale (Asso 1967, e D'Onofrio - Pace 1981, p. 105) va riconsiderata almeno per l'esecuzione della cupola, che un testo epigrafico del 1762 attribuisce all'allora vescovo Francesco Antonio Salomone. L'iscrizione, leggibile in Menna 1848 (II, p. 97, con traduzione in Marini Ceraldi 1980a, p. 13), non era su lapide.
[41] Bertaux 1903, pp. 52 s.; Bovini 1967, p. 60, e Farioli 1967, pp. 276 ss., con n. 16, e fig. 4.
[42] Le varie proposte di datazione vengono sintetizzate in Pani Ermini 1978, p. 210; altre ancora sono in Lazarev 1967, p. 40 (prima metà del V secolo); Rotili 1978, pp. 28 e 30 (inizi del VI secolo); Bologna 1992, p. 186 (primi decenni del V secolo); Korol 1994, p. 141, e n. 100, e Id. 2000, p. 151, n. 6 (primo terzo del V secolo).
[43] Questo il testo: Ossa martyris Cassii episcopi sinuessani hic in pace quiescunt e Corpus martyris Secondini episcopi sinuessani heic requiescit (Menna 1848, II, p. 53, e Marini Ceraldi 1980a, pp. 10 s.). Ne manca il riscontro in CIL (X, 1883) ed in ILCV.
[44] Cfr. Balducci 1963.
[45] Cfr. ibidem.
[46] Lanzoni 1927, I, p. 178. Un'antica iscrizione sessana, oggi perduta e in parte prossima a quella di Carinola, ricordava le spoglie dei martiri Casto e Secondino (De Masi 1761, p. 244, e cfr. Di Silvestro 1996, pp. 27 s.). L'intera questione è criticamente ripresa in Zannini 2005, pp. 46 ss., e nn. 5 ss.; cfr. anche Id. 1997, pp. 22 s., n. 39.
[47] Per l'ager Falernus in età romana cfr., soprattutto, Johannowsky 1975; Guadagno 1987a; Arthur 1991, pp. 35 ss.; Zannini 2001, pp. 19 ss., e Id. 2002, passim.
[48] PatLat, coll. 153 s.; Lanzoni 1927, I, p. 185; ivi, II, pp. 768 s., e Kehr 1935, p. 266, 1-2.
[49] Le uniche ipotesi di datazione per il mosaico di Carinola rinviano a fine VI - inizi VII secolo - Budriesi (1974), p. 14, ribadita pressoché incondizionatamente nei contributi successivi -, "al V, o forse ancora al VI secolo" (Korol 2000, p. 159), ed al corso del V secolo (Falla Castelfranchi c.s.). Anticipiamo da adesso la nostra proposta al pieno VI secolo, all'avvenuta conclusione, preferibilmente, della guerra greco-gotica.
[50] Si confida nell'imminente pubblicazione dei risultati.