Ventaroli - Basilica di Foro Claudio - S. Martino |
*Aggiornato il 23 Luglio 2012
Forse non si chiamava Martino, ma Marco o Marciano, come possiamo ritrovare in diverse fonti del passato. Personalmente, opterei per Marciano perché a Casanova esiste una zona agreste, proprio ai piede della montagna e lungo la strada che porta alla Piana di S. Martino, che ancora viene chiamata S. Marciano. Se così fosse, quel toponimo che non sono mai riuscita a spiegarmi, avrebbe la sua ragione d’essere. Il nome Martino gli sarebbe stato imposto dal Pontefice stesso (Anastasio II? Simmaco?) al momento del battesimo per segnare il radicale cambiamento di rotta della sua vita, dal paganesimo al cristianesimo.
Non doveva essere una persona di poco conto se il battesimo lo prese per mano dello stesso Pontefice, ma non abbiamo molte notizie su di lui. Della vita di questo santo sappiamo qualcosa grazie alle ricerche di alcuni studiosi del passato e locali ma, per capire e apprezzare meglio la sua figura, bisogna inquadrarla in quel processo di cristianizzazione dei primi secoli che contribuì a ridisegnare lo stile di vita di tutta la penisola italica, sia con un modo nuovo e personalissimo di vivere la nuova fede, sia con l’organizzazione di una gerarchia che sapesse venire incontro alle nuove esigenze.
Il cristianesimo, camminando lungo le più importanti vie di comunicazione del tempo, penetrava nelle città, nelle campagne e diffondeva i vari modi di viverlo proveniente dal vicino oriente. Ad esso venivano eretti i primi luoghi di culto per accogliere i neofiti, istituite le prime diocesi, ma assistiamo anche alla diffusione del monachesimo che, dai deserti d’Egitto, della Siria e della Palestina, arrivò in Occidente e si andò sempre più affermando, fino a diventare una forza basilare del cristianesimo occidentale. Dapprima si manifestò in forme di vita molto semplici, che riguardavano il singolo, poi si trasformò in forme di vita organizzata che riguardavano intere comunità di monaci.
Il monachòs, secondo la concezione orientale affermatasi in Italia verso il IV secolo ad opera del vescovo alessandrino Atanasio, era colui che viveva solo, in luoghi deserti; colui che, lottando ogni giorno per la sua stessa sopravvivenza contro ogni sorta di disagi e di privazioni, dava testimonianza alla legge di Dio. Grazie a questa concezione, assistiamo, in Italia, al fiorire di eremiti che si isolavano dal resto del mondo per vivere il proprio ascetismo. Le grotte dei monti diventarono luoghi di accoglienza di questi “solitari” e l’intera penisola italiana si punteggiò di “grotte della fede”.
L’esperienza eremitica ebbe, in quelle personalità particolarmente votate all’alta spiritualità, risposte diverse.
In Benedetto da Norcia fece nascere la “voglia di fare” che lo spinse a fondare le prime comunità monastiche, a Subiaco e a Montecassino; in Martino consolidò invece il bisogno di ascesi, e quindi di isolamento, per meglio meditare i misteri divini. L’incontro, (a Montecassino, dove sembra avesse preso dimora Martino inizialmente) di queste due sensibilità spirituali, così simili e così diverse, non poteva che produrre una sola cosa: l’amore e il rispetto reciproco, che poi si trasformò in santità in entrambi.
In Benedetto da Norcia fece nascere la “voglia di fare” che lo spinse a fondare le prime comunità monastiche, a Subiaco e a Montecassino; in Martino consolidò invece il bisogno di ascesi, e quindi di isolamento, per meglio meditare i misteri divini. L’incontro, (a Montecassino, dove sembra avesse preso dimora Martino inizialmente) di queste due sensibilità spirituali, così simili e così diverse, non poteva che produrre una sola cosa: l’amore e il rispetto reciproco, che poi si trasformò in santità in entrambi.
Benedetto non abbandonò il suo amico Martino che si era spostato sul Monte Massico per ritrovare là quella solitudine che aveva perso con il suo arrivo, ma dal messaggio che gli mandò, quando seppe che Martino si era incatenato un piede ad un masso per limitare al massimo il suo raggio d’azione e mortificarsi, possiamo comprendere la diversa evoluzione spirituale dell’esperienza eremitica dei due. Quel “non una catena di ferro, ma la catena di Cristo ti deve incatenare a Dio” rivela in Benedetto il totale superamento della fase eremitica e l’inizio di quella comunitaria; Martino è invece ancora impregnato di monachesimo primitivo che non supererà mai, nonostante la sua apertura verso gli altri. Ma questo, non è certamente un ostacolo alla sua indiscussa santità.
c.d.l.
Bibliografia
AA. VV. – Raccolta di Rassegna Storica dei Comuni – vol. 17, Studi Atellani, 2003
Ambrosiani A.- Zerbi P. - Problemi di Storia medioevale – Milano, 1977
De Stasio M. e Iannettone G – Bernardus episcopus calinensis in Campania Felice – Napoli,1988
Gregorio Magno ( a cura di Simonetti e Pricoco) – Dialoghi: storie di santi e di diavoli – vol. II, libri III e IV, Milano, 2006
Gregorio Magno – Vita di San Benedetto e la Regola – Roma, 1975
Jannelli Gabriele – Sacra Guida ovvero descrizione storica artistica letteraria della chiesa cattedrale di Capua – Napoli, 1858
Moroni Gaetano – Dizionario di erudizione storico-ecclesiastica – vol. 63, Venezia, 1853
Mugolino Giovanni – Santi eremiti italogreci: grotte e chiese rupestri in Calabria - Catanzaro, 2002
Penco Gregorio – Storia del monachesimo in Italia: dalle origini alla fine del medioevo – Milano, 1983
Zannini Ugo e Guadagno Giuseppe – S. Martino e S. Bernardo – Minturno, 1997
Grande Conci, questa dovrebbe essere la rampa di lancio per far conoscere meglio in nostro territorio, far assaporare anche con una estrema difficoltà di ricerca, gli usi, i costumi, il patrimonio storico archeologico che spesso in zone come le nostre vengono lasciati a se stessi e ignorati da tutti.
RispondiEliminaGuardando un po' i testi che hai consultato, pensavo: "tutti hanno studiato la nostra zona, e noi come assessorato alla culture stiamo ancora a pettinare le bambole!!!!!!!!!!!!!!!!!"
Perchè non ti firmi? Mica siamo sul quiquiri, sai?!Scherzo. Comunque i testi consultati sono molti di più, ma non mi sembra il caso di fare una bibliografia lunghissima. Non tutti i testi da me consultati parlano specificamente di San Martino di Monte Massico, ma le notizie bisogna desumerle e poi assemblarle in un quadro storico a 360 gradi. Non è un lavoro semplice, ma è comunque molto appassionante.
RispondiEliminaCara Concetta, mi permetto di aggiungere al tuo contributo l'articolo sul cenobio di S. Martino che ho redatto per la guida "Carinola. Percorsi di conoscenza", Carinola (CE) 2009. Ciao!
RispondiEliminaSilvio Ricciardone
La fama dell'insediamento monastico di S. Martino, i cui resti affiorano sul versante nord-occidentale del monte Massico, si lega all'omonimo santo vissuto nel VI secolo e morto intorno al 590. Di lì a poco ne parla papa Gregorio Magno (590-604) nei suoi Dialogi, mitizzando la figura dell'eremita con la descrizione dei suoi numerosi miracoli. Celebre il passo che vorrebbe Martino legatosi ad una catena per circoscrivere i propri movimenti: S. Benedetto, venutone al corrente, inviò da Montecassino un discepolo per dissuadere l'eremita dalla dura prova, ma Martino, pur accondiscendendo all'invito, rimase fermo al precedente limite, bloccato da un misterioso vincolo non più fisico. Si tratta, in sostanza, del tema della più antica raffigurazione riferibile con certezza al santo, tuttora nell'Episcopio di Ventaroli, in corrispondenza della nicchia di controfacciata subito a destra di chi entra nel complesso basilicale: il dipinto dovrebbe risalire al pieno XV secolo, contestualmente al riassetto della parte anteriore dell'impianto.
Alla primitiva grotta dell'eremitaggio di Martino cominciarono ad addossarsi le strutture per il ricovero dei monaci benedettini, progressivamente ingrandite per meglio accogliere il crescente numero di discepoli.
Il sito dovette, nel contempo, divenire un'importante meta di pellegrinaggio, essendo ancora visibile il percorso che dal monastero porta alla grotta, dov'erano custodite le spoglie del santo, e poi alle celle e agli altri locali oggi in rovina, così da mostrare "a cielo aperto" l'analoga funzione delle cripte anulari (quella di S. Pietro nella Basilica Vaticana ne è l'esempio più noto). Non si spiegherebbe, altrimenti, il tentativo - fallito - del duca e poi principe di Benevento Arechi II (758-788) di traslare le spoglie di S. Martino nella sua città, dove la costruenda chiesa di S. Sofia, voluta dallo stesso sovrano, doveva assurgere ad autentico Pantheon cristiano della Langobardia minor. (continua)
Senza dubbio il flusso massiccio di fedeli contribuì a rendere fiorente l'insediamento cenobitico, tanto da stimolare l'interesse dei Saraceni appostati sul Garigliano: le loro scorribande, avvenute all'inizio del X secolo, non ebbero, però, esito positivo. La tradizione vuole che nel 1094 i resti dell'eremita vengano traslati dal monte Massico all'appena eretta cattedrale di Carinola per volontà del vescovo, già di Foro Claudio, Bernardo; si discute, tuttavia, sui termini della reale storicità dell'evento.
RispondiEliminaLa mancata frequentazione dell'insediamento e gli atti di vandalismo perpetuatisi nel tempo hanno drammaticamente minato la decorazione pittorica della grotta, ormai leggibile a fatica. L'antro è rivestito sul lato sinistro da un paramento murario, mentre dalla parte opposta si aprono due arcate, sempre in muratura, che scoprono la parete rocciosa; superiormente una volta a botte chiude la cavità. Sia i fianchi laterali che la copertura rivelano una struttura dipinta a palinsesto a doppio livello, ossia con sovrapposizione di due strati pittorici, il secondo dei quali, quello in superficie, è anche il più recente.
Partiamo proprio da quest'ultimo. La parete sinistra conserva tracce di un teoria di Santi con nimbo (aureola), plausibilmente inframmezzati da Maria Regina, su cui corre un'iscrizione latina a caratteri bianchi interpretabile nelle parole "(VIR)GINIS ET BEATI MARTINI CON(FESSORIS)". Più su, nell'intradosso della volta a botte, campeggia il Cristo a mezzo busto entro un clipeo sorretto da quattro angeli, una soluzione attestata, nel suo impianto di massima, fin dall'età teodoriciana (fine V- inizio VI secolo) nella Cappella Arcivescovile di Ravenna e, sempre nella medesima città, ma qualche decennio più tardi, in S. Vitale, e quindi riproposta all'inizio del IX secolo a Roma nel sacello di S. Zenone in Santa Prassede, nonché, quasi cent'anni dopo, a Cimitile, presso Nola, nell'oratorio dei Santi Martiri. Infine, sulla ghiera dell'arco che precede, subito dopo l'ingresso, la volta a botte è visibile frontalmente un secondo clipeo (forse ancora con il Cristo, forse con la sola mano divina), affiancato da figure (gli Evangelisti o angeli). L'esito di questo strato affrescato trova impressionanti consonanze stilistico-iconografiche con la decorazione promossa dall'abate Epifanio (824-842) della cripta del monastero di S. Vincenzo al Volturno, in provincia d'Isernia. Quella di S. Vincenzo al Volturno era una comunità religiosa fra le più prestigiose dell'Italia di allora, politicamente legata alla potenza imperiale carolingia di cui fungeva da vero e proprio avamposto a ridosso della Langobardia minor. L'importanza dell'abbazia si può misurare soprattutto dalle numerose "filiali" che, per quanto ubicate in territorio straniero, rimandavano alla sua diretta autorità: guarda caso, lo stesso complesso di S. Martino del Massico divenne possedimento di S. Vincenzo già, a quanto pare, al tempo del principe beneventano Sicardo (832-839). Stante la quasi perfetta coincidenza fra le coordinate cronologiche dell'abate Epifanio (824-842) e del principe Sicardo (832-839), sembra plausibile, per il secondo livello pittorico nella grotta di S. Martino, un'esecuzione "figlia" della nuova dipendenza volturnense del complesso massicano, sempre che un suo riassetto, anche decorativo, non sia dipeso dal successivo sisma dell'847. Né, tantomeno, andrebbe esclusa una datazione leggermente posteriore: sappiamo, infatti, che la distruzione dell'abbazia di S. Vincenzo al Volturno per mano dei Saraceni nell'881 costrinse i monaci a raggiungere Capua; nulla di strano se il loro arrivo in Campania settentrionale non abbia avuto un riflesso, diretto o indiretto, anche per il cenobio di S. Martino, magari nella ridipintura dello speco.
(continua)
Rimane da approfondire lo strato più antico, distinguibile solo per sommari lacerti - fra cui le tracce di un'iscrizione in rosso -, ma soprattutto per una parziale croce gemmata con bracci patenti ed un clipeo centrale, affrescata sulla volta dello spazio vuoto dietro l'attuale parete di fondo e visibile solo da un'apertura. La croce avrebbe omaggiato le sottostanti reliquie di S. Martino, postevi, a rigor di logica, alla morte dell'eremita verso il 590 ca., nell'ambito della prima campagna decorativa della grotta, forse già di fine VI - inizi VII secolo. Proprio il paramento che occlude posteriormente l'antro è da ritenersi un inserto seicentesco, impreziosito da una Crocifissione coeva, e cela, come si evince dallo sfondamento del muro, l'originario tratto conclusivo dello speco (oltre alla parte di volta con la croce del primo strato dipinto); su di esso ancora campeggia una seconda Crocifissione, riferibile al XIV secolo.
RispondiEliminaCarissimo, non sai quanto mi fai contenta! E' proprio questo a cui ambisco: alla partecipazione di tutti, studiosi e conoscitori, per approfondire la nostra storia dai vari punti di vista. Il tuo è un interessantissimo approfondimento che, sono sicura, sarà molto apprezzato.Intervieni quando vuoi.
RispondiEliminaDo you believe that he is also called San Marzano?
RispondiEliminaNo one seems to know exactly who San Marzano is!