giovedì 22 settembre 2016

Gli ultimi sovrani angioini: Ladislao. Scontro con i Marzano.

Ladislao di Durazzo


Ladislao aveva solo 14 anni quando nel 1390 a Gaeta, dove era fuggito con la madre Margherita,  fu incoronato ufficialmente re di Napoli per mano del neo eletto papa Bonifacio IX, che lo aveva riconosciuto erede di diritto al trono.  
In quel periodo, la situazione del Regno di Napoli non era per niente facile. Era in atto lo Scisma d’Occidente e si ripeteva quello che era già accaduto con suo padre Carlo: due papi, due re di Napoli. Come se non bastasse, molti potenti baroni del regno, quali il Gran Connestabile Ramondello Orsino, i Sanseverino, i Della Ratta, conti di Caserta e Conversano, i Marzano, Duchi di Sessa e conti d'Alife, e tanti altri di parte angioina, si erano rifiutati di prestare obbedienza a Ladislao.  
Essi avevano occupato Napoli e costretto la regina alla fuga, proclamando re  Luigi II d’Angiò. Nell’attesa che Luigi giungesse a Napoli, i baroni costituirono un consiglio di otto magistrati che reggesse le sorti del regno in quella fase. A Napoli, Luigi giunse nel 1389 dove, quello stesso anno,  fu incoronato re da un Legato dell’ antipapa Clemente VII, e prese subito possesso del regno.

La lotta per riappropriarsi del Regno di Napoli si rivelava molto aspra e Ladislao era ancora troppo giovane per affrontarla, ma la madre fu molto previdente. Nel 1392 fece unire in matrimonio Ladislao con la ricchissima Costanza Chiaromonte per fornire al figlio i mezzi economici per combattere Luigi. Anche il papa Bonifacio fece la sua parte a favore di Ladislao: mandò denaro a Ramondello Orsino perché rifornisse l’esercito e prendesse le parti di Ladislao.

La giovane moglie di Ladislao rimase al fianco del marito solo tre anni, fino alla morte del padre che lasciò sua figlia senza mezzi e quindi inutile alla causa napoletana. Ladislao chiese allora l’annullamento del matrimonio al papa, il quale lo concesse. Ma Ladislao non si risposò subito, come era prevedibile; solo dieci anni dopo, nel 1402, si risposò con Maria di Lusignano, figlia del re  Giacomo I di Cipro. Anche questa secondo moglie stette poco tempo con il marito perché dopo due anni, nel 1404, morì senza avergli dato un erede.  

Prima di poter rientrare a Napoli, Ladislao dovette aspettare ben 10 anni, fino al 1399, anno in cui Luigi perse l’appoggio della Francia e soprattutto quella dell’antipapa Clemente VII, che nel frattempo era morto. Cinse d'assedio Napoli, costrinse alla fuga Luigi e rovesciò il governo degli otto. Poi iniziò la sua vendetta contro i baroni a lui ribelli.

Ladislao passò la sua breve vita a guerreggiare contro tutto e tutti; contro Luigi che gli aveva usurpato il Regno; contro il papa perché aveva deciso di annettere lo Stato Pontificio al Regno di Napoli; contro Firenze che fece lega con Siena per combattere i sogni di annessione di Ladislao;  contro gli ungheresi, finché non gli riconobbero il titolo di re d’Ungheria che gli spettava di diritto. Ma l’azione più energica dovette affrontarla nel suo Regno per rafforzare il suo potere contro i terribili baroni che lo osteggiavano, e dove non arrivava con la forza, arrivava con l’astuzia e con l’inganno.  

Molti baroni li fece uccidere, altri imprigionare. Riuscì a far imprigionare ben 11 membri della famiglia Sanseverino e, dopo un sommario giudizio, li fece tutti strangolare a Castel Nuovo. In quest’azione di pulizia erano compresi anche i Marzano, Duchi di Sessa e signori di Carinola, che però non furono toccati subito perché protetti da papa Bonifacio, a cui Ladislao aveva promesso di non toccarli. 
Solo alla morte di Bonifacio (1404), Ladislao realizzò la sua vendetta contro i Marzano.

A quel tempo, era duca di Sessa Giacomo Marzano, al quale re Luigi d’Angiò aveva chiesto la mano della figlia Maria semplicemente per avere dalla sua parte il potente duca di Sessa e indebolire così i partito di Ladislao. Ma Ladislao aveva capito perfettamente quali erano i piani di Luigi ed allora fece occupare la Rocca di Mondragone ed egli stesso devastava continuamente i casali di Sessa, Carinola e la pianura di Mondragone. Giacomo fu costretto a chiedere aiuto al futuro genero, che gli inviò mille cavalieri sotto il comando di Bernabò Sanseverino, per fermare le scorrerie di Ladislao. Inutilmente. 
A sua volta Ladislao mandò 110 lancieri alla Rocca di Mondragone perché ogni giorno ci si scontrava con gli angioini di re Luigi e servivano sempre forze fresche. 

Il Duca Giacomo non era certo contento di avere la guerra in casa e soprattutto di vedere i suoi sudditi così tartassati e vessati dalle truppe di Ladislao. Essi perdevano tutto, case e raccolti e si impoverivano sempre più. Giacomo cominciò a pentirsi del suo appoggio a Luigi e allora subito ne approfittò papa Bonifacio, sostenitore di Ladislao, il quale gli mandò suo fratello Giovanni Tomacelli per trattare la pace tra i Marzano e Ladislao. 

Il duca tentennava e ci vollero ben tre visite del Tomacelli per cercare di convincerlo, ma la pace stentava ad arrivare. Allora Ladislao perse la pazienza e nel 1399 cavalcò contro il Duca, gli tolse alcuni territori e per cinque lunghi mesi assediò Sessa. 
La pace fu allora conclusa a condizione che il sovrano perdonasse il Duca di Sessa e che gli restituisse i territori tolti. A pace fatta, sia Giacomo che suo fratello Goffredo fecero giuramento di fedeltà a Ladislao e le nozze di Maria con re Luigi d’Angiò furono annullate.

Ladislao si rivelò molto magnanimo con i due Marzano. Confermò Giacomo nei suoi possedimenti e nella carica di Grande Ammiraglio e  la figlia Maria, promessa a re Luigi, la diede in moglie a Nicolò de Berardi, conte di Celano, che nominò Gran Giustiziere. A Goffredo, già Gran Camerlano del Regno e conte di Alife, donò invece le città di Teano e di Carinola.

Nel 1402 morì Giacomo Marzano lasciando la moglie  Caterina Sanseverino e cinque figli: la già citata Maria, Angiola, Margherita, Isabella e il piccolo Giovanni Antonio di cui fu tutore lo zio Goffredo.

Goffredo non era uno sprovveduto e conosceva l’animo vendicativo di Ladislao:  nonostante le sue elargizioni, non si fidava di lui.  Memore della strage dei Sanseverino che Ladislao aveva fatto compiere, cominciò a far fortificare Sessa, Mondragone e Teano per non farsi trovare impreparato ad un eventuale attacco. Ma Ladislao decise di giocare d’astuzia e chiese per un suo figlio naturale di otto anni, Rinaldo, principe di Capua, la mano dell’unica figlioletta di Goffredo, anche lei di nome Maria

A Goffredo la manovra subodorò d’inganno, ma non poteva far altro che accettare. Ladislao, per allontanare qualsiasi dubbio, inviò suo figlio Rinaldo ad Alife affinché Goffredo lo crescesse in amore insieme a sua figlia. Come se non bastasse nel febbraio del 1404 riconfermò al piccolo Giovannantonio Marzano il Ducato di Sessa e lo investi del privilegio del “mero e misto imperio”. Di fronte a queste prove, Goffredo Marzano non potette più dubitare e quando Ladislao invitò tutti i Marzano di Sessa e d’Alife a Capua per festeggiare con onore i due minorenni promessi sposi Rinaldo e Maria, si fidò e accettò volentieri l’invito. 
E fece male. 

Ladislao non era uomo di pace, ma di vendetta: tutti i Marzano intervenuti furono arrestati e portati in prigione a Castel Nuovo e Ladislao si impadronì dei loro territori. Il matrimonio di  Rinaldo e Maria Marzano, figlia di Goffredo, fu sciolto. 

A questo punto furono i Marzano a giocare d’astuzia, colpendo Ladislao nel suo punto più debole: il fascino femminile. La bella Margherita Marzano riuscì a sedurre il re e a diventare la sua amante. Grazie alle armi di seduzione di Margherita, Ladislao liberò tutti i Marzano e piazzò le sorelle di lei ottimamente: Maria che aveva già sposato il Conte di Celano, alla morte di questi si risposò con Muzio (Giacomuzzo) Attendolo Sforza da cui ebbe i due figli Bartolomeo, che poi sarà conte di Celano, e Carlo, che poi diventerà arcivescovo di Milano; in terze nozze si riposò con Nicolò Orsino, conte di Manoppelo.  Angiola fu marita ad Antonello della Ratta, conte di Caserta, e Isabella al conte di Tagliacozzo  Giacomo Orsini. Il piccolo Giovannantonio fu affidato alla mamma Caterina Sanseverino. Tuttavia, Ladislao restituì solo una parte delle terre confiscate ai Marzano; il resto fu poi restituito dalla regina Giovanna II nel 1416.

Nel 1407, con una mossa d’astuzia, Ladislao si sposò per la terza volta con Maria d’Enghien, vedova di Raimondo Orsini del Balzo, principe di Taranto e conte di Lecce. Non riuscendo ad espugnare il castello della principessa e a sottometterla, Ladislao cambiò tattica e decise di chiederla in moglie. La sposò a Taranto nel 1407. Assunse personalmente il titolo di principe di Taranto, togliendolo al figlio di Maria e Raimondo, Giovanni Antonio, ed incorporò i suoi beni alla Corona, ossia a se stesso.

La guerra con Luigi d’Angiò, che non si dava per vinto, continuò tra alti e bassi. 
Nel 1413, Ladislao era impegnato nell’occupazione di Roma, dove doveva giungere Sigismondo d’Ungheria per essere incoronato Re dei Romani dal papa, che in quel periodo era Giovanni XXIII, il secondo e ultimo papa eletto dal Concilio di Pisa dopo la morte del primo, Alessandro V
Per paura che Sigismondo potesse avere delle pretese sul Regno di Napoli, Ladislao si mosse preventivamente alla volta di Roma e la occupò, costringendo il papa alla fuga a Bologna. Ma mentre era impegnato nell’occupazione cominciò a sentirsi male. Fu portato subito a Napoli dove, dopo quattro giorni di sofferenze, morì. Aveva 38 anni. 

Si pensò subito che fosse stato avvelenato, secondo l’uso del tempo di eliminare i nemici in quel modo, ma non fu il veleno ad ucciderlo bensì la sifilide. L' aveva contratta a causa di una vita sessuale molto intensa e promiscua.
Al momento della morte, Ladislao era soggetto a scomunica papale e il suo corpo fu portato a lumi spenti e senza clamore nella chiesa di S. Giovanni a Carbonara, dove sua sorella Giovanna II fece poi erigere un maestoso monumento funebre.
cdl

Monumento funebre di Ladislao - Chiesa di S.Giovanni a Carbonara


Alcuni testi consultati

Agnese Palumbo - Maurizio Ponticelli: Il giro di Napoli in 501 luoghi - Roma, 2014

Angelo di Costanzo:  Storia del regno di Napoli – Cosenza, 1839

Archivio Storico Napoletano – tomo 13 – Firenze 1861

Attilia Tommasino: Sessa Aurunca nel periodo aragonese – Roma, 1997
Francesco Capecelatro: Storia del regno di Napoli – Napoli, 1840
Filippo M. Pagano; Saggio istorico sul Regno di Napoli - Napoli, 1824
G.B. Crollalanza (diretto da):  Giornale araldico genealogico diplomatico – Vol. 1-2, Fermo, 1873-4

Giovanni Antonio Summonte; Dell’historia della città e regno di Napoli- vol. 4 – Napoli, 1675

Giovanni Bausilio: Storie antiche di una Napoli antica – Frosinone, 2016

Giovanni Gravier: Raccolta di tutti i più rinomati scrittori dell'istoria generale del Regno- Napoli, 1769






Il Grande Scisma d'Occidente



Miniatura del XV secolo raffigurante due "obbedienze papali"

Dopo circa settant’anni di stazionamento ad Avignone, la sede papale ritornò a Roma. Non fu Caterina da Siena l’artefice di questo ritorno, come comunemente si crede, ma l’ incresciosa consapevolezza  che se la sede papale non tornava a Roma, il patrimonio della Chiesa se  ne andava a farsi friggere, rastrellato abilmente dalle tante nuove famiglie emergenti bramose di ingrandirsi sempre più. Sicuramente Caterina ebbe la sua bella parte di ossessionante rompiscatole, ma i motivi reali di questo ritorno furono molto più pratici.

Lo stato di caos   in cui versava l’Italia in questo particolare periodo favoriva le numerose Signorie che erano spuntate come funghi nell’Italia centrale, le quali, indisturbate, facevano man bassa dei territori pontifici per ingrandire i propri e accrescere il loro potere. I vari  Montefeltro, Malatesta, Ordelaffi e compagnia bella stavano letteralmente mangiando gli stati pontifici e se non si ricorreva ai ripari, sarebbero scomparsi del tutto incamerati nelle proprietà di famiglia.  Il primo papa a fare qualcosa fu Clemente VI, il quale inviò a Roma il suo Legato e Vicario, il cardinale Egidio Alvarez de Albornoz, coadiuvato da Cola di Rienzo, con lo scopo di bloccare quel processo famelico.  Cola di Rienzo riuscì solo a farsi ammazzare (1354) e Albornoz, con fatica e sangue, riportò molte città sotto l’egida di Roma. Il papa si rese conto che la situazione di effimera pace riportata dal suo Legato non sarebbe durata a lungo e che la sua presenza a Roma era più che mai necessaria.

Nel 1367 fu Urbano V ad arrivare a Roma e fu accolto gioiosamente da un popolo che da ben sessantaquattro anni non vedeva un papa e che aveva dormito per tre giorni sulla spiaggia di Corneto (Tarquinia) pur di non perdersi lo storico avvenimento. Una volta a Roma, Urbano, guardandosi intorno, si rese conto dell’enorme sconfesso in cui versavano le chiese e la città, da anni completamente abbandonate a se stesse. Si diede da fare per sistemare un po’ le cose e resistette fino al 1370, poi sentendosi prossimo alla fine volle tornare ad Avignone dove morì.   

Gli successe Gregorio XI, più letterato che ecclesiastico, il quale stava proprio bene ad Avignone e non voleva affatto ripetere l’esperienza del suo predecessore. Per ben sette anni resistette agli appelli del Petrarca e alle solfe di S. Caterina, ma quello che lo fece muovere da Avignone fu l’insurrezione di tutte le città pontificie in Italia, che si ribellarono perché il Legato pontificio di Perugia aveva perseguitato con tale insistenza una donna che costei, per sfuggire al suo pressante “stalking”,  si gettò dal balcone e morì. Le città pontificie presero la palla al balzo e si ribellarono tutte, con Firenze in testa. Era il 1375 e solo la città di Roma rimase fedele al papa delle sessantaquattro che avevano precedentemente riconosciuto la sovranità papale.

Gregorio scomunicò Firenze e fece sequestrare gli ingenti patrimoni dei banchieri e dei mercanti fiorentini in Francia e in Inghilterra. A sua volta Firenze confiscò tutti i beni della Chiesa sul suo territorio e cercò di tirare nella rivolta anche Roma. Solo allora Gregorio si scosse e mandò a dire ai romani che, se rifiutavano l’invito, egli sarebbe tornato definitivamente a Roma.
Roma rifiutò l’invito di Firenze e Gregorio dovette mantenere la sua promessa. Tornò a Roma nel 1377, ma morì pochi mesi dopo, forse di malinconia per aver lasciato la sua amata Avignone.

Appena si indisse il Conclave per l’elezione del nuovo papa, i romani si affrettarono ad asserragliare il Laterano, dove  si teneva l’elezione, per timore che venisse eletto papa un altro francese. E avevano ben motivo di temerlo. Su 134 cardinali, ben 113 erano francesi. I romani cominciarono a minacciare di morte i cardinali che non sceglievano un papa romano o almeno italiano. E così in questa atmosfera minacciosa fu eletto l’arcivescovo di Bari, Bartolomeo Prignano, che prese il nome di Urbano VI, il cui caratterino non era niente male e che annunciò grandi cambiamenti. Come i romani, anche Urbano corse subito ai ripari per scongiurare una nuova possibile elezione francese e nominò una marea di nuovi cardinali in modo da assicurare agli italiani sempre la maggioranza. Tutti gli altri, suoi nemici, li fece ammazzare.

I francesi videro compromesso il loro primato e corsero ai ripari. Si riunirono ad Anagni e dichiararono nulla l’ elezione di Urbano perché strappata con le minacce dalla popolazione. Il 20 settembre 1378 elessero ad Avignone il loro papa, Roberto di Ginevra, che assunse il nome di Clemente VII. L’Occidente fu spaccato in due ed ebbe inizio il Grande Scisma che durò circa quarant’anni, fino al 1417.

Clemente VII fu subito riconosciuto dalla Francia, che forse aveva delle speranze sugli stati pontifici e aveva fatto la sua parte sottobanco, dagli Angioini  di Napoli, dalla Spagna e dalla Scozia. Gli altri stati europei rimasero fedeli ad Urbano. Le due obbedienze papali crearono conflitti e confusioni da ogni parte; per Napoli ora c’erano due canditati al Regno, uno incoronato dal papa di Avignone e l’altro da quello di Roma. Nell’ ambito dello stesso stato c’erano Signorie fedeli ad Avignone e Signorie fedeli a Roma così come c’erano due vescovi per la stessa diocesi, uno nominato da Avignone l’altro da Roma, con conseguenze che si possono facilmente immaginare, di favoritismo oppure di ritorsione e isolamento.

La Contea di Carinola non fu esonerata da questa situazione di confusione. Non li conosciamo tutti i vescovi di quel periodo; lo storico Giuseppe Cappelletti ne cita solo alcuni.
Giuliano, detto Giubino, fu fatto vescovo di Carinola nel 1363 dove rimase fino al 1388, anno della sua morte. Al momento dello scisma, rimase sotto l’obbedienza romana di Urbano VI  e questo comportò una doppia nomina vescovile per Carinola. Nel 1384, mentre era ancora vivo Giuliano, Clemente VII nominò vescovo di Carinola Matteo di Melfi e ordinò all’Arcivescovo di Corfù e al vescovo di Cosenza di deporre Giuliano, cosa che non avvenne perché Giuliano non lasciò la sua sede.  Nello stesso 1388, alla morte di Giuliano, anche papa  Urbano nominò il suo vescovo per Carinola, un Giovanni. Probabilmente fu quest’ultimo a prendere possesso della sede di Carinola perché, come fa notare don Amato Brodella, pagò le sue tasse e quelle dei suoi predecessori.
Dopo Giovanni, nel 1401 fu designato vescovo calinense Marzio o Marco, fedele all’obbedienza romana perché nominato vescovo da Bonifacio IX, successore di Urbano. Infine, un Antonio, vescovo di Carinola, figura negli atti del Concilio di Pisa del 1409 a cui intervenne e vi si sottoscrisse.

Questa situazione andò avanti per un bel po’ di anni e i papi che si succedettero, dall’una e dall’altra parte, sembravano ben felici di rimanere in carica. A nessuno di loro veniva la voglia di dimettersi a favore dell’altro per normalizzare la situazione, anzi sembravano sguazzarci dentro egregiamente.  A molti cardinali però quella situazione di sterile contrapposizione non andava giù e allora vollero correre ai ripari. 

Il 25 marzo 1409 indissero a Pisa un Concilio ecumenico che avrebbe dovuto risolvere finalmente la situazione. Rivendicando il diritto di ogni potere, il Concilio cardinalizio rivolse ai due papi in carica, Benedetto XIII e Gregorio XII, l’appello a presentarsi. Nessuno dei due lo fece e furono entrambi deposti perché riconosciuti scismatici ed eretici. Al loro posto fu eletto papa l’arcivescovo di Milano col nome di Alessandro V, seguito alla sua morte da Giovanni XXIII, e  la situazione peggiorò perché ora di papi in carica ce n’erano tre! La cosa era diventata alquanto ridicola. A questo punto intervenne Sigismondo di Boemia che, forte del prestigioso titolo di imperatore dei romani, indisse nel 1414 un Concilio a Costanza e li fece dimettere tutti e tre! Ci vollero però tre anni di minacce.

Finalmente l’11 novembre del 1417 fu eletto papa il Cardinale Oddone Colonna che assunse il nome di Martino V. Lo scisma era superato… ma aveva gettato i semi per un scisma ancora più grande che di lì ad un secolo  sarebbe sopraggiunto.
cdl


Alcuni testi consultati
Amato Brodella: Storia della Diocesi di Carinola – Marina di Minturno, 2005
Ferdinando Ughelli:  Italia Sacra – gbooks
Filippo A. Becchetti: Istoria degli ultimi quattro secoli della Chiesa – vol.1 – Roma, 1788
Gabriele De Rosa: Età Medievale – Bergamo, 1990
Giuseppe Cappelletti: Le chiese d’Italia dalla loro origine sino ai nostri giorni – vol. 20 - Venezia, 1866
Hubert Jedin: Storia della Ciesa- L’epoca dei Concili – vol. 2 – Milano 2007
Indro Montanelli: Storia d’Italia – vol 2 – Milano, 2003
Lorenzo Dattrino (a cura di): Storia della Chiesa – Roma, 1986


venerdì 2 settembre 2016

Gli ultimi sovrani angioini: Giovanna I

Giovanna I d'Angiò regina di Napoli

* aggiornato il 18 settembre 2016
Roberto d’Angiò, con ponderatezza e prudenza aveva fatto grande il Regno di Napoli; i suoi discendenti e nipoti, GiovannaI, Ladislao e Giovanna II, con leggerezza ed incoscienza contribuirono a perderlo. Lo storico Filippo Maria Pagano traccia un breve, ma efficace ritratto degli ultimi tre reali angioini.
Giovanna I, giovane ed inesperta, passò il suo tempo a difendersi dall’attacco e dalla tirannia dei magistrati e dei baroni, dal cognato Luigi d’Ungheria a cui aveva uccidere il fratello Andrea, suo marito e persino dal suo erede e nipote Carlo di Durazzzo. Il suo regno fu caratterizzato dalle guerre civili e dall’anarchia. Non fidandosi dei prepotenti baroni che pur dovevano militi e servizio militare alla Corona, Giovanna fu la prima ad assoldare nel Regno i capitani di ventura con le loro compagini di soldati mercenari, aggravando il Regno di ulteriori spese. E fu per far fronte a queste nuove spese che la Corona iniziò a vendere feudi che, prima, venivano regalati a militi meritevoli.
Ladislao, vendicativo e divorato da cieca ambizione, mosse guerra a tutto e tutti pur di ottenere quello che voleva e  per ottenerlo cominciò a vendere città e terre demaniali tolte ai ribelli ed anche agli amici.
Giovanna II, pur cercando di governare il suo Regno con leggi abbastanza giuste, si lasciava dominare facilmente dai suoi favoriti e se da una parte aiutava, dall’altra opprimeva. E fu proprio  la    sua debolezza a lasciarsi condizionare dagli altri che mise il punto alla dinastia angioina.
Ma il gene che accomunava questi tre sovrani era senza dubbio quello della libidine. I loro appetiti sessuali erano insaziabili e per essi sacrificarono mariti, mogli ed amanti.
Eppure il popolo napoletano, sempre tollerante,  amava questi tre infelici viziosi e, come un padre, li rimproverava e biasimava, ma li proteggeva a spada tratta.


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Qualche giustificazione al suo scriteriato modo di fare Giovanna I ce l’ha. Diventata regina a 16 anni, alla morte del nonno Roberto avvenuta nel 1343, era decisamente troppo giovane ed inesperta per governare un regno grande e complesso come quello di Napoli. Inoltre era una delle  primissime donne a  regnare per diritto ereditario in un mondo di maschi e questo non lavorava certo a suo favore.

Nonno Roberto tutto questo lo sapeva perciò era stato previdente ed aveva pensato a tutto. O almeno ci aveva provato. Aveva cercato di proteggerla, inutilmente devo dire, da tutti i lati, organizzando per lei il matrimonio col parente Andrea d’Ungheria, fratello di Luigi, re d’Ungheria a cui aveva promesso l’altra nipote, Maria, sorella di Giovanna, matrimonio che però non avvenne mai. 
Con il   matrimonio di Giovanna ed Andrea, Roberto aveva voluto proteggere la nipote da possibili  e legittime rivendicazioni al Regno di Napoli da parte dei parenti ungheresi, estromessi a suo tempo proprio a causa della sua elezione a re, e aveva voluto affiancarle un uomo che sapesse difendere lei e il regno dagli attacchi e dalle ben note prepotenze e manipolazioni dei baroni. Tuttavia, per meglio difendere la nipote dalle mire espansionistiche dei parenti ungheresi, Roberto mise una clausola al suo testamento: che il regno sarebbe stato di Giovanna e non di suo marito, il quale aveva diritto solo al titolo di principe consorte. 

Ma la politica è una cosa e l’amore un’altra e non sempre è possibile conciliarle.   

Andrea non era certo il bel principe delle favole e Giovanna, bella, colta e signorile, non poteva innamorarsi di un uomo rozzo, ignorante e  tracagnotto quale era Andrea, il quale se ne andava sempre in giro con una torma di ungheresi simili a lui. Giacere nello stesso letto con un uomo così non doveva essere per niente piacevole per Giovanna e il loro matrimonio fu abbastanza infelice, nonostante la nascita del figlio Carlo. In realtà Giovanna era da sempre innamorata di Luigi di Taranto, un altro cugino con cui aveva invece molto in comune.   

Di questa infelice unione reale cercarono di approfittarne molti uomini che volevano guadagnare un regno e molte mamme di palazzo, intriganti e pettegole, che non aspettavano altro che vedere sul capo dei loro figli la corona di re e loro stesse salire uno scalino della scala reale. 
Luigi di Taranto, consapevole delle simpatie che la regina aveva per lui, con l’aiuto della mamma Caterina di Valois Courtenay riuscì a ficcarsi nel letto della regina  e a rimanerci, diventando suo amante e poi marito.  

L’altro furbone fu Carlo d’ Angiò Durazzo, il quale seguì anche lui un piano strategico architettato dalla sua intrigantissima madre, Agnese di Perigord, e da Filippa la Catanese, governante di Giovanna, e su loro consiglio, rapì e sposò clandestinamente Maria, sorella di Giovanna. Infatti, secondo il volere di nonno Roberto, se Giovanna fosse morta senza eredi, Maria sarebbe diventata regina e il marito principe consorte. Probabilmente Carlo voleva fare in modo che le cose andassero proprio in quel verso. 
Questo rapimento non suscitò nessuno reazione da parte di Luigi d’Ungheria, promesso sposo di Maria,  semplicemente perché egli stesso, contravvenendo ai patti, si era sposato con Margherita di Boemia.

Ad Andrea d’Ungheria, però, non andava giù il fatto di dover essere semplicemente principe consorte: la sua ambizione era di diventare re. Si diede tanto da fare presso la corte pontificia che ottenne dal papa Urbano VI l’invio di un suo Legato a Napoli perché lo incoronasse re. Con questa mossa Andrea firmò la sua condanna. Giovanna non poteva permettere l’usurpazione del regno da parte degli insolenti ungheresi, così come non potevano permetterlo tutti quelli che speravano di prendere il posto di Andrea accanto alla regina. E fu congiura.

Con la scusa di una battuta di caccia, la corte si portò ad Aversa dove Andrea, durante la notte, fu tirato fuori dal letto con una scusa e strangolato, il suo corpo gettato da una finestra. Era il 18 Settembre del 1345.

Nonostante si dichiarasse innocente di questo delitto, Giovanna non fu creduta da nessuno e lei,  per togliersi dai guai o per vera innocenza, ordinò al Gran Giustiziere, che allora era Bertrando del Balzo, di catturare i colpevoli e punirli duramente.  I colpevoli furono subito individuati nella famiglia  della Catanese, governante di Giovanna,  una ex lavandaia che una serie di fortunate congiunture e   abili maneggi avevano portato in alto. Furono subito imprigionati la stessa Filippa;  suo figlio Roberto Cabano, che era riuscito a diventare gran siniscalco grazie alla scaltrezza di sua madre; la nipote Sancha Cabano, molto intima di Giovanna e che della defunta regina Sancha aveva il nome. 

Secondo lo storico Francesco Ceva Grimaldi, la congiura fu infatti ordita dalla Catanese alle spalle della regina per la segreta speranza che ella sposasse proprio suo figlio Roberto. Ma non tutti gli storici consultati sono concordi sull’innocenza della regina e sulla sua estraneità al fatto; alcuni la reputano parte rilevante di questa congiura.

Dopo l'arresto dei suoi amici,  Giovanna, memore dei tanti momenti belli vissuti con loro, fece chiedere al Gran Giustiziere di non giustiziarli ed egli le fece rispondere di aver fiducia in lui. Ma Bertrando del Balzo non mantenne la promessa ed eseguì alla lettera gli ordini della regina, facendo atrocemente giustiziare i prigionieri,  con grande soddisfazione della corte e del  popolo che si liberava definitivamente di una famiglia molto scomoda. 
Per questa disobbedienza, che era costata la vita ai suoi amici, la regina ebbe sempre rancore verso Bertrando del Balzo e la sua famiglia.

Due anni dopo, il 20 agosto 1347, Giovanna sposò Luigi di Taranto.

Il terribile episodio dell'uccisione di Andrea non piacque a nessuno: né al popolo, né al Papa, né a Luigi d’Ungheria. Il popolo cominciò a disprezzare la sua regina, il Papa la dichiarò innocente solo dopo processo e la cessione di Avignone al Papato e Luigi d’Ungheria, molto arrabbiato, calò in Italia per vendicare la morte di suo fratello. Il popolo del Regno, sdegnato verso la regina, gli aprì le porte come un liberatore. 

Entrato in Aversa, Luigi scaricò la sua rabbia su Carlo di Durazzo perché non aveva saputo impedire l’omicidio e lo fece uccidere, facendolo gettare dalla stessa  finestra da cui era stato gettato il corpo del fratello. Ma Luigi non si rivelò affatto un liberatore come aveva pensato il popolo napoletano: cominciò a far processi su processi, fece incarcerare e ammazzare moltissimi baroni, mandò in Ungheria il figlioletto di suo fratello e di lui non si seppe più nulla. E chissà cosa altro avrebbe combinato se non fosse sopraggiunta un’epidemia di peste che lo costrinse ad andarsene. 

Giovanna non  riprese più l’amore e il rispetto del popolo e la sua vita fu caratterizzata da scelte sempre sbagliate. Per non affrontare da sola le spinte che le venivano da ogni lato, ebbe il tempo di sposarsi altre due volte, nel 1363 col giovane Giacomo IV d’Aragona e nel 1373 con Ottone di Brunswick, ma nessuno di loro divenne mai re. Nello scisma d’occidente Giovanna parteggiò per il papa sbagliato, l'antipapa francese Clemente VII; allora il papa legittimo, Urbano VI, nel 1381 le tolse il regno, dichiarandola eretica e scismatica, e lo diede a Carlo di Durazzo, con il quale Giovanna aveva avuto già dei violenti conflitti e che comunque lei aveva nominato suo erede perché cugino e marito di sua nipote Margherita, figlia di sua sorella Maria.

Proclamato re di Napoli con il nome di Carlo III di Durazzo, il nuovo re fece imprigionare Giovanna nel castello di Muro Lucano e la fece ammazzare il 12 maggio del 1382, 
E così fini, dopo quarant'anni, il regno della grande Giovanna, prima regina di Napoli.


Ma l’antico detto biblico “occhio per occhio, dente per dente” aspettava Carlo al varco.

Carlo III di Durazzo, infatti, non fu re di Napoli per molto tempo. Solo quattro anni, dal 1382 al 1386. Furono però quattro anni di intensi conflitti. Prima, con il suo cugino e rivale Luigi d’Angiò, anch’egli incoronato re di Napoli ad Avignone dall'antipapa Clemente VII; poi con lo stesso papa Urbano VI che invece, a Roma,  aveva incoronato lui e che gli si rivoltò contro perché non aveva ricevuto i compensi stabiliti per il suo appoggio alla causa durazzesca. 
La sorte volle che nello stesso 1382 morì Luigi d’Angiò e Carlo rimase re assoluto di Napoli. Ma Luigi aveva lasciato il trono d’Ungheria alla figlia Maria. Allora Carlo, risolta la questione con il papa, si recò in Ungheria per reclamare il trono come unico erede maschio del ramo principale angioino. A Buda sicuramente non lo attendevano a braccia aperte e la regina madre Elisabetta, moglie del defunto Luigi, lo fece catturare e rinchiudere in prigione a Visegrad, dove morì avvelenato il 24 Febbraio del 1386.
cdl
Testi consultati.

Archivio Storico Napoletano – tomo 13 – Firenze 1861

Agnese Palumbo - Maurizio Ponticelli: Il giro di Napoli in 501 luoghi - Roma, 2014

Angelo di Costanzo: Istoria del regno di Napoli – Tomo terzo- Napoli, 1769
Carlo Pecchia: Storia civile e politica del Regno di Napoli – Napoli, 1783
Domenico Crivelli: Della prima e della seconda Giovanna, Padova 1832
Filippo Maria Pagano: Istoria del Regno di Napoli – Palermo, 1835
Giovanni Antonio Summonte: Historia della città e del Regno di Napoli – tomo terzo- Napoli, 1748
Niccolò Morelli: Vite de’ re di Napoli, Napoli 1849

Pietro Giannone : Istoria civile del regno di Napoli -Volume 6 – Milano, 1823

Sara Prossomariti: I signori di Napoli – Roma, 2014
Tommaso Costo: L’apologia storica del Regno di Napoli…, Napoli 1613
Giovanni Bausilio: Storie antiche di una Napoli antica – Frosinone, 2016

Storia del Regno di Napoli e suo governo dalla decadenza dell'imperio romano ...

Francesco Capecelatro: Storia di Napoli : Periodo angioino, Regno ..., Volume 3


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